Cagliari, la città multietnica di Guy Tillim

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Certe volte ci vuole uno sguardo “forestiero”, un occhio esterno per cogliere quello che non riusciamo a vedere quando percorriamo distrattamente le strade della nostra città, affaccendati nelle nostre quotidiane fatiche.

Le strade del centro si offrono continuamente alla nostra attenzione come finestre aperte a nuovi orizzonti di riflessione per chi sa leggere l’ordinario quotidiano, quando vanno in scena i piccoli gesti di un’umanità variegata impegnata a inseguire la vita.
A volte ci vuole un fotografo per fare la sintesi, magari un fotografo “Istranzu”.

Nel nostro caso lo sguardo forestiero è quello di Guy Tillim, fotografo Sudafricano, recentemente insignito del prestigioso Henri Cartier-Bresson Award, che ha fotografato le strade di Cagliari nel corso di due settimane di residenza nel capoluogo. Le fotografie sono confluite nella mostra “Cagliari”, promossa dalla Fondazione di Sardegna in collaborazione con la Fondazione Sardegna Film Commission, e in un volume edito da Punctum, arricchito dai testi di Marco Delogu (che ne è il curatore) Francesco Abate e Michela Murgia. È il secondo appuntamento del ciclo di produzioni artistiche della Fondazione di Sardegna sul tema delle migrazioni.

La mostra sarà visitabile nella sede di via San Salvatore da Horta, 2 – Cagliari sino al 6 gennaio 2019.

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Il racconto di Guy Tillim è coerente con il percorso artistico del fotografo sudafricano, Ha iniziato come giovane reporter negli anni ’80, quando ha scoperto nella fotografia un modo per combattere il divario razziale creato dall’apartheid nel suo paese: «la fotocamera – scrisse – è lo strumento ideale per trascendere quei confini, per vedere cosa è davvero successo». Guy si è poi distaccato dalla visione classica del fotogiornalismo di denuncia, per adottare uno sguardo più dilatato ed enigmatico. Uno sguardo da uomo della strada, attento alle situazioni semplici, che coglie i momenti di sospensione del flusso degli avvenimenti, i frammenti di vita quotidiana che aprono spazi alla riflessione.

« “Istranzu” – osserva Michela Murgia nel suo testo – è un termine bivalente in sardo. Vuol dire ospite, ma anche straniero. Non però una cosa o l’altra: le significa sempre entrambe allo stesso tempo» e per la scrittrice la città mostrata da Tillim «È una Cagliari fotografata spesso nel suo centro, ma è un centro che esprime continuamente uno spirito periferico, un singulto di marginalità a tratti straziante. Sebbene multietnica la Cagliari delle foto non è multiculturale, tanto da poterla scambiare indifferentemente per una Palermo o una Marsiglia, un porto assoluto, ipostatico, dove il solo modo di stare è dato da quell’andare e venire di continuo, in un fluire che è opposto al concetto immobilizzante di porre radici».

«Tillim – scrive Marco Delogu – sfugge all’escamotage del pittoresco sardo per mostrare la “Babilonia” di Sardegna: piazze, strade e non luoghi, segnati da elementi uniformanti che inducono a un senso di spaesamento. Il fotografo prosegue sul sentiero di un racconto contemporaneo della popolazione, dove assistiamo a scene di vita quotidiana di una città capace di accogliere». In fondo – osserva Francesco Abate – «la gran parte delle genti che qui arrivò si è infilata fra i flussi migratori di una storia quotidiana senza battaglie, guerre, pace e trattati a seguire».

Il fotografo, in questo suo lavoro, non si è nascosto ma ha atteso sulla strada, nei luoghi della transumanza urbana, il momento giusto con la fotocamera bene in vista: alcuni la guardano, altri no. La sua narrazione fotografica si compone per gradi. Nella prima immagine compaiono solo migranti, poi pian piano il racconto si riempie di una popolazione variegata fatta di cagliaritani, stranieri, turisti, in un flusso ininterrotto di momenti di vita quotidiana.

La Cagliari vista da Guy Tillim appare una città dove la stratificazione di etnie sembra avvenire senza sforzo, come un processo conosciuto ormai rodato e collaudato nei secoli. La sua mostra è un racconto che ci offre molti spunti di riflessione su un presente che sembra non conoscere più il passato o volersene facilmente sbarazzare, seppellendolo sotto le paure di una società che si cerca di piegare non solo alla globalizzazione dei costumi ma anche all’insopportabile contrapposizione fra uguali e disuguali, fra bianchi e neri, fra “noi” e “loro”.

Enrico Pinna