Non avevo capito, da piccola, l’importanza che avesse per questo paese di 5000 anime, questa pianta autoctona che circonda il paese e che viene spogliata della sua corteccia ciclicamente ogni 10 anni: l’amata Quercia da sughero. I fitti boschi che circondano Calangianus (e non solo) sono stati una grande risorsa per il paese e, in parte, continuano ad esserlo, ma il periodo più florido l’abbiamo vissuto tra gli anni ’70 e i ’90, fino agli albori del 2000.
Chi l’avrebbe mai detto che da una ghianda che cade da una quercia nasce una piantina che cresce senza che nessuno se ne occupi e dopo 30 anni è pronta per la prima “decortica”? – così si chiama l’estrazione della corteccia dalla pianta. Sembra quasi che si spogli della gonna, essendo la parte inferiore ad essere estratta – almeno così pensavo da bambina. D’altronde, a scuola non ci insegnavano queste cose, erano nozioni captate qua e là.
Un’altra sorpresa, per noi fanciulli, fu scoprire che la corteccia estratta per la prima volta si chiamava “sughero maschio” e non era lavorabile, ma serviva solo per fare presepi o poco altro. Dalla seconda decortica si estraeva, invece, il “sughero femmina”, che serviva per tutte le lavorazioni: dai tappi per il vino alle solette per le calzature, dalla carta da sughero ai tessuti per abiti, e tanto altro… Un mondo affascinante che ci lasciava a bocca aperta ogni volta di più.
Nel libro delle elementari, c’era scritto che la nostra isola era chiamata dai turisti “l’isola dagli alberi storti”, perché il maestrale riusciva a piegarli. I nostri boschi no, sono talmente fitti che questo fenomeno non può avvenire: restano dritti a dispetto di ogni vento e sembrano proteggersi l’un l’altro. L’unico loro nemico è il fuoco.
Si narra che i calangianesi riconoscessero l’odore del sughero appena dopo quello della mamma, perché in ogni famiglia c’era almeno una persona che lo lavorava. Fino a 30 anni fa tutti avevano un laboratorio sotto casa. Le nuove costruzioni nascevano, infatti, con il progetto di un laboratorio a pian terreno e l’abitazione immediatamente sopra.
È una lavorazione lunga e affascinante che va dall’estrazione alla raccolta, dal trasporto alla bollitura, passando per tutte le altre fasi fino ad arrivare al prodotto finito.
Ai tempi d’oro, in paese c’erano più di 300 artigiani con un laboratorio, in cui lavoravano insieme ai loro familiari e talvolta collaboratori esterni. Per le vie del paese c’era un via vai di mezzi che traghettavano il sughero dai cortili ai laboratori. I viaggi più suggestivi erano certamente quelli verso la stazione di Monti, perché nascondevano intrinsecamente il messaggio più dolce: la spedizione nel “Continente”. Questo significava che il proprio lavoro sarebbe stato apprezzato in tutta Italia e forse, chissà, anche in Europa, nel mondo. Che orgoglio!
Oltre gli artigiani, c’erano alcune (poche) aziende più grandi che avevano più di 100 dipendenti, perciò la manodopera del paese non bastava più e arrivavano i pendolari ogni mattina dai paesi vicini. In quel periodo era quasi tutto lavoro manuale: i macchinari erano pochi e si faceva un rigoroso apprendistato per diventare dei bravi sugherai.
L’estrazione del sughero avviene, normalmente, da maggio a settembre e in questo arco di tempo si lavorava a ritmo serrato. Gran fermento in paese e tutti gli studenti approfittavano della “stagione del sughero” per racimolare il gruzzolo necessario per tutto l’anno. I bar aprivano alle cinque e i ragazzi si incontravano per fare colazione tutti insieme ed era sempre una gran festa. A fine stagione erano tutti stanchi, ma felici.
Sono stati anni d’oro, il paese ha raggiunto livelli di benessere inaspettati, diventando uno dei 100 comuni della “piccola grande Italia” – ancora capeggia il cartello all’ingresso del paese, come ricordo di quel che fu e difficilmente ri-sarà. Negli anni successivi, non era più consentito lavorare in paese, bisognava trasferirsi in zone artigianali: nuove costruzioni, spese ingenti; gli artigiani non hanno saputo cavalcare l’onda. L’avvento dell’euro e la crisi economica successiva hanno solo accelerato un processo inevitabile di crollo del settore.
Gli artigiani che restano si contano sulle dita di una mano. È rimasta una grossa azienda con più di 300 dipendenti. Tutti gli altri hanno dovuto trovare un’alternativa e reinventarsi. Qualcuno ci è riuscito, qualcuno nel frattempo è andato in pensione. In paese siamo rimasti in 3700, immigrati inclusi. Il nostro, come tanti paesi, ha subito un declino difficilmente spiegabile, al quale i più non hanno saputo reagire. Non so certo analizzare cosa sia successo e perché, posso solo osservare e raccontare “la realtà” così come mi si presenta.
Mi resta la malinconia dei tempi andati e dello splendore di un paese ricco, soprattutto di idee, lavoro e buona volontà. Resta a chi lo visita la luminosa decadenza di un paese che ha vissuto una certa floridità, immerso tra le sughere e il granito, dove almeno la natura non ha smesso di sorridere. Mai.
Gasperina Decandia nasce a Taroni, in uno stazzo del comune di Calangianus, paese in cui si trasferisce all’età di 4 anni e che la accoglie tutt’ora tra le sue braccia malinconiche. Felice 71enne, sposata da 57, mamma di 5 figli, nonna di 6 nipoti; nei ritagli di tempo tra lavoro e famiglia, ha continuato a coltivare le sue passioni: ascoltare, osservare, leggere, raccontare.