Di questi tempi ci sono diverse coincidenze da verificare per meglio capire il perché nel nostro Paese si siano verificati alcuni casi in cui è riemersa l’immagine, e la preoccupazione, d’un ritorno al fascismo. E, ancora, del perché si siano avvertite, con sempre maggiore intensità, delle accuse di faziosità nei confronti dell’antifascismo militante. Non pochi aspetti portano a trovare dei collegamenti con quanto va accadendo in seno al governo gialloverde, dove l’ultradestra salviniana va esercitando un’evidente egemonia e un pericoloso traino verso forme di un invadente autoritarismo. Con atteggiamenti ed espressioni che possono richiamare le liturgie prepotenti ed arroganti di quel passato regime.
Ora, di fronte al riemergere di questi fatti che sembrano mettere in discussione l’idea stessa di democrazia, pare necessario aprire una discussione, metter su una verifica, analizzare i comportamenti di movimenti e gruppi che di democratico mostrano d’averne assai poco. Per taluni osservatori, la causa di queste ripetute pulsioni d’autoritarismo d’àbord proverrebbe dalle debolezze e dalle irresolutezze attribuite ai precedenti governi del Paese. Potrebbe anche esser vero, ma certamente non ne attenua il pericolo. Perché è proprio su questo che occorre riflettere. Con lucida serenità, certamente, ma con molta attenzione.
Per chi, come chi scrive, ha letto con molto interesse il romanzo di Antonio Scurati
dedicato alla nascita del fascismo (M il figlio del secolo, da Bompiani), non è difficile cogliere delle “strane” analogie tra quel che avvenne in quel 1919 e quanto abbiamo sotto gli occhi in questo 2019. Certamente non s’intende indicare qui delle corrispondenze fra i protagonisti di questi due autoritarismi: s’intende soltanto indicare che li accomuna un’identica risposta, articolata sulla violenza verbale, nei confronti dell’insoddisfazione popolare per via delle debolezze e delle inettitudini delle precedenti maggioranze.
Per uscir fuori da ogni dubbio, non è che s’intenda dare al leader leghista la qualifica di fascista, anche se ne utilizza strumenti simili nel linguaggio ed eguali esibizioni di bistimentas militarizzanti: c’è infatti una forte differenza fra il populismo salviniano (per una democrazia autoritaria) ed il fascismo mussoliniano (per una dittatura violenta). Ma è proprio quell’autoritarismo esasperato (in uno con l’asprezza del linguaggio) del leader della Lega a creare preoccupazione. Anche perché va seminando rancori, provocando violenze ed attizzando paure. Creando soprattutto barriere, confini, muraglie; attuando ancora respingimenti, sequestri, divieti, nel nome di una sicurezza nazionale che trasuda illibertà. Ed è per via di queste posizioni sempre un po’ spregiudicate ed azzardate – da uomo che “se ne frega” di tutto e di tutti – che la nostra democrazia potrebbe incorrere in dei seri pericoli. Da cui dover difendersi.
Certo, dare del fascista al leader leghista è politicamente sbagliato, perché appare fortemente legato ai vincoli democratici, da quelli elettorali a quelli parlamentari. Ma proprio questo suo indefesso agitarsi per l’ottenimento del successo elettorale lo ha portato, e lo continua a portare, a cavalcare ogni opzione ed ogni richiesta possa portargli dei voti. Senza aver chiaro l’obiettivo politico da ottenere, tanto da mostrarsi difensore degli umbri a Perugia, dei lucani a Potenza e dei sardi a Cagliari oltre che dei suoi lombardi a Milano. Senza batter ciglio se le aspirazioni dei sardi e degli umbri, ad esempio, confliggono, come accade, con quelle dei lombardi. Lo confermeranno in questo i differenti slogan con cui ha animato i comizi: dall’iniziale prima gli italiani!, ed a seguire prima gli umbri, prima i lucani, prima i sardi! E così via.
Sarà poi questo, a detta di alcuni politologi, il più evidente equivoco della Lega salviniana: un partito che vorrebbe essere al servizio dell’intero Paese ed è invece rimasto un semplice movimento confederale per la conquista elettorale delle diverse regioni per poter dare più spazi e potere all’autoritarismo del suo leader maximo.
Porre un freno a questa deriva portata avanti, con i metodi arroganti da supergendarme (“solo io posso chiudere o aprire i porti!”) e da un partito di un’ultradestra sovranista e populista, dovrebbe essere un dovere per quanti intendano difendere il metodo democratico del dialogo, del rispetto e del consenso. Le elezioni europee, ormai alle porte, possono e debbono essere l’occasione per lanciare al Paese un segnale forte in modo da ridimensionare elettoralmente l’invadenza populista e sovranista di un partito che insidia, con gli eccessi dell’autoritarismo, il nostro futuro di matura e forte società liberaldemocratica.
Paolo Fadda
(Economista, saggista, già dirigente del Banco di Sardegna)