Discutere, confrontarsi, dialogare sul presente e soprattutto sul futuro del Parco Geominerario della Sardegna non può che essere un fatto positivo. Perché, a distanza di circa vent’anni dalla sua istituzione, non è ancora riuscito a trovare una sua precisa identità ed una sua chiara mission operativa. Tanto da apparire, come si suole dire, né carne né pesce, cioè né geologico (bocciato) né minerario (abortito), e men che mai storico, culturale e ambientale come vorrebbe la sua completa denominazione. Oltre che vedovo di quel presunto (?) coniuge della famiglia Unesco.
Ed è proprio su questo che debbo una risposta al giornalista toscano Alessandro Baldasserini, che mi ha espresso il suo disaccordo sulla necessità, da me avanzata, di doversi procedere ad un deciso ed urgente renewal operativo d’un Parco profondamente malato d’inerzia e di amnesie. Partendo proprio dal primato che s’ha da dare, o meno, ad una od all’altra delle due aggettivazioni che lo definiscono: geologico e minerario, appunto.
Di fatto avevo espresso il timore, e l’ho tuttora, che il ruolo istituzionale dell’ente parco fosse sempre più condizionato, nella sua operatività, dall’esuberante ed escludente presenza della sua componente geologica. Comportante l’impegno di un notevole dispendio di tempo e di risorse, ponendo così in sottordine la valorizzazione di quei valori storico-industriali che invece ne erano stati, all’origine, l’idea-forza dei suoi benemeriti fondatori.
Di tutt’altro parere Baldasserini che pone – o parrebbe porre – la valorizzazione delle realtà geologiche come premessa fondamentale e prioritaria per l’esistenza stessa del Parco. Anche se poi ammette che “il parco minerario [debba essere] il vero prototipo del geoparco”: il che significa – se non andiamo errati – che dovrebbe essere attribuita una priorità d’interesse e di valore a quella che è stata l’antropizzazione industriale dei luoghi mineralizzati.
Perché è poi questo il punto di divergenza nei giudizi (positivi e negativi) con il cortese interlocutore: perché non può essere assolto un ente che finora ha concentrato quasi tutto il suo impegno sul progetto Geoparco-Unesco, dimenticando che l’idea-forza, da cui ne era scaturita l’istituzione, è, e rimane, quella della valenza paesaggistica del patrimonio industriale oltre a quella sociale della cultura mineraria presenti.
Un Parco, preciso, rimasto tra l’altro prigioniero ed ostaggio di quell’equivoco del marchio Unesco, la cui perdita non ha riguardato, come qualcuno ha inteso far credere – non saprei se per superficialità o per malafede –, gli impianti minerari, che so, di Masua, Ingurtosu o Funtana Raminosa, ma soltanto la rete isolana dei 300 e passa geositi sparsi nei 24mila chilometri quadri del territorio isolano.
Per formazione culturale, oltre che per esperienza di lavoro e conoscenza diretta degli ambienti minerari, rimango sempre più convinto che il nostro Parco dovrebbe innanzitutto impegnarsi per valorizzare (anche attraverso il riconoscimento Unesco) gli otto paesaggi minerari affidati alla sua tutela. Dando così evidenza e fruibilità alle pluralità del patrimonio affidatogli, che è minerario in primis, ma anche archeologico, storico, culturale, geologico, ambientale.
Dovrebbe poi essere questo il tema principale di un dibattito sul Parco (cosa è e cosa si vorrebbe fosse) che, partendo dalla cocente e mortificante esclusione dalla rete dei geoparchi, aiuti a disegnarne la giusta identità e ne rilanci tutte le attività. Superando – questo sarebbe importante – le rivalità, i preconcetti ed i troppi personalismi che fin qui ne hanno mortificato e ridotto l’operatività.
Mi è quindi parso giusto prospettare, come ho sostenuto, che “il Parco, per essere tale (e se lo si volesse mantenere tale), dovrebbe strutturarsi in due distinti progetti: l’uno riguardante l’individuazione, la tutela e la valorizzazione storica degli impianti minerari dismessi ed un altro dedicato all’individuazione della rete isolana dei geositi”.
Con l’amico Massimo Preite (accademico dell’Ateneo fiorentino e fra i più autorevoli esperti d’archeologia industriale mineraria del Paese) condivido il giudizio su di una deviante complessità istituzionale dei parchi minerari come decisa dai nostri legislatori. Proprio perché non è stata messa in chiaro la loro profonda diversità – di funzioni e di pluralità di temi – rispetto a quelli naturalistici monotematici. Con l’aggravante d’averli privati della capacità autonoma di redigere un piano operativo che ricucisse, con una coerente narrazione storico-ambientale, generale e condivisa, tutte le realtà geominerarie presenti nei territori. Condizionati fra l’altro dagli egoismi e dalle rivalità di campanili e sagrestie locali.
Certo, se questo non è accaduto in vent’anni, ci saranno stati degli ostacoli e degli impedimenti: rimuoverli credo che sia un doveroso impegno dei tanti che hanno a cuore la memoria di quella che è stata una delle pagine più importanti e coinvolgenti della storia sociale di quest’isola.
Da qui la mia provocazione di un Parco 2.0 che venga attrezzato per voltare pagina e per rilanciare alla grande il cospicuo patrimonio archeologico, documentale ed ambientale che ci ha lasciato in eredità l’industria mineraria. Da poter rilanciare con il generoso concorso delle idee di tutti, compreso Alessandro Baldasserini, naturalmente.
Paolo Fadda
(presidente dell’Ente Minerario Sardo dal 1969 al 1974)