l sacramento, secondo l’insegnamento dei troppi preti che hanno avuto a che fare con la mia vita, devo confessare il mio peccato: l’unico, il solo peccato che offende veramente la divinità, quale che sia il nome con il quale si manifesta.
Neppure una telefonata gli ho fatto! Attendendo, perché questa era l’ineludibile verità del vento di primavera, che il destino si compisse. Raccattando le ultime informazioni sulla sua salute negli sms di una comune amica. Riflettendo sulle sensazioni che ti rimarranno dopo, quando verrà meno ogni usata, amante compagnia.
Tra le tristi incombenze dei giornalisti, vi è anche quella di dover essere sempre preparati alla morte altrui. Così come le vergini sagge, che prudentemente conservano l’alimento per le loro lampade, essi custodiscono, nei coccodrilli, le virtù degli uomini e delle donne di cui potrebbero esser chiamati a render conto all’improvviso.
Confesso che ho peccato! Per penitenza (don Baracca, il più abbordabile tra i miei confessori, si sarebbe accontentato di tre Avemaria) mi ero proposto di tacere, di astenermi da qualsiasi commento sulla morte di Giorgio.
Me lo ero proposto non solo per quel sentimento che ti viene da dentro, cercando di dare forma al caos, ma anche per un ragionamento più meditato, appreso da un grande maestro del Diritto del lavoro, che suggeriva cautela nelle recensioni di autori famosi. Perché, diceva, recensire l’opera di un grande maestro è un po’ come volersi porre, il più delle volte immeritatamente, al suo livello. Un peccato di superbia, insomma.
Cosa avrei potuto dire del Giorgio Melis giornalista più di quanto egli stesso non abbia già detto di se? Non a caso, Giommaria, appena appresa la notizia, gli ha subito dato la parola, ancora una volta, pubblicando una sua recente riflessione. Lasciando che parlasse proprio di speranza, di quel bene che ci scivola lentamente dalle mani, a poco a poco, e che cerchiamo di trattenere, forse perché l’abbiamo conosciuta davvero, un tempo, forse perché ricordiamo ancora cosa siano i sogni, mentre l’interlocutore di Giorgio, a quanto pare, sembra sopraffatto dallo sconforto.
Cosa avrei potuto dire del Giorgio Melis giornalista più o meglio di quanto possano, o vogliano, dire i colleghi che se lo son trovato, per una vita, fianco a fianco, gomito a gomito, spigolo contro spigolo?
Nel giro di un paio di giorni, ho capito che non è di Giorgio che voglio parlare. Ma di me, di noi. Di noi che restiamo. Convinto ancora di più, contrariamente ad un diffuso luogo comune, che è la morte degli altri a non esistere. L’unica vera morte è la nostra. Siamo noi che moriamo, brandello dopo brandello, ogni volta che si interrompa una relazione che ci dava senso. Come alberi che assistono alla caduta, uno dopo l’altro, dei loro rami, grandi e piccoli, orgoglio e forza della loro esistenza. Sino a quando, prima o poi, daremo compimento definitivo alla nostra morte.
Non reciterò le tre avemaria, ma neppure aggiungerò peccato a peccato!
Il nome di Giorgio è soltanto il tu retorico. Giorgio Melis è ciò che mi manca. Giorgio Melis, è il mare.
Tanti anni fa, un’amica siciliana, forzatamente traferita in terra ferma, mi ha confessato quanto soffrisse la mancanza del mare. Non pensare, mi spiegava, che mi affacciassi in continuazione sul litorale, ma sapevo che c’era, che era lì: questo mi dava sicurezza.
L’ho conosciuto relativamente tardi, saranno trent’anni. Ma ricordo l’istante con assoluta precisione: la penombra si era abbattuta sullo studio al termine della registrazione, quando si è avvicinato ed abbiamo scambiato appena poche parole. Poche, sufficienti per un arrivederci. Da allora, non ho fatto che seguire il suo cammino di giornalista, costretto, per onorare la propria vocazione, a mantenersi saltando di pietra in pietra nel guado di un ruscello in piena.
Ma è di me che voglio parlare: di quanto ho imparato, di quanto perdo.
Ho imparato che i tratti di ragazzo di strada non si perdono con la maturità.
Ho imparato quanto il tempo sia effimero, come dopo raggiunta l’età del senno si possa ancora provocare la lotta come si usava da ragazzini: dimmi marrano!
Ho imparato che la curiosità non è una stagione, ma un abito.
Ho imparato come si possa sopravvivere al dolore, all’assedio della sofferenza, alla trafittura della pena. Ed esserci. Con la pena dentro, con la sofferenza che trabocca, ma esserci.
Ho imparato come un albero messo a dimora, un germoglio, una goccia di sudore, sudato sotto il sole della domenica, possano restituire il sorriso al volto affaticato dalla vita.
Ho imparato che si può rispondere “no”, che è possibile impuntarsi contro ogni sopruso, basta esser disposti a pagare il prezzo.
Ho imparato che la dignità è più potente di qualsiasi potenza.
Ho capito cosa sia la deontologia.
Ho imparato che le cose del mondo son solo vanagloria, che puoi dare del tu ai potenti, aver contezza dei segreti e dei pettegolezzi del vicinato, aver scandagliato i quartieri della politica, e continuare ad essere lo stesso ragazzo che sei stato, e che sei.
Ho perso un altro ramo.
Gianni Loy
(4 aprile 2015)