Giorgio Melis, un uomo libero (Gian Antonio Stella)

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Non ricordo il giorno in cui conobbi Giorgio Melis. Non ricordo neppure l’occasione, il motivo o il luogo. Non potrei neppure dire se, quella prima volta, ci parlai di persona o al telefono. Se mi cercò lui o lo cercai io. Sono passati molti anni. Davvero tanti.

Sono però assolutamente certo di un paio di cose. La prima è che doveva esserci di mezzo una notizia, perché quella era la passione comune. La seconda è che l’intesa sulle cose, tra me e lui, fu istantanea. E ruotava tutta intorno alla stessa idea di questo mestiere. E cioè che il giornalismo abbia un senso solo se ha una dimensione morale.

C’è un vecchio adagio insulso nel nostro mestiere e cioè che il giornalista deve essere orfano, scapolo e bastardo. Non ho mai capito chi sia stato il primo a dire questa sciocchezza, che qualcuno attribuisce (mi pare impossibile) a Gaetano Afeltra. Ma non è così.

Un buon giornalista non deve essere «orfano» nel senso che deve sempre portarsi dietro «i lari e i penati», il patrimonio di cultura, esperienze, emozioni, dolori della propria famiglia, della propria contrada, della propria storia perché questo lo aiuta a leggere meglio ciò che si trova davanti. Non deve essere «scapolo» nel senso che deve vivere in una realtà che non sia fatta solo di lavoro e giornale e colleghi perché guai a lui se diventa autoreferenziale. Ma soprattutto non deve essere «bastardo» perché questo è un lavoro che non si può fare senza tenere conto del «dopo». Non c’è scoop per cui valga la pena di rovinare la vita a una sola, piccola, innocente persona che non se lo merita. Non c’è.

Ecco, ho sempre avuto l’impressione che Giorgio avesse un’idea «morale» di questo lavoro. Centrata sul caposaldo della libertà. Dopo tanti anni, mi rendo conto oggi che non so neppure come votasse, questo nostro amico che se n’è andato. Non gliel’ho mai chiesto. Non era importante. Non perché io ritenga la passione politica secondaria, anzi. Ho orrore del qualunquismo. Ma sono assolutamente certo che quale che sia la fede di ciascuno, l’unica posizione possibile davanti a una notizia, alla scoperta di uno scandalo, ai risultati di un’inchiesta scomoda sia l’assoluta libertà di giudizio. Assoluta. Al di là di qualunque convinzione politica. E quando parlavi con lui avevi esattamente questa percezione: che fosse non solo un giornalista libero ma un uomo libero. Ricco di intelligenza e ironia. Quella che perfino dopo essere stato colpito dallo «stramaledetto» (così lo chiamava Curzio Malaparte) gli ha consentito fino all’ultimo di telefonare agli amici col sorriso sulle labbra.

Amava la Sardegna come si può amare una madre. Ogni tanto mi mandava una foto. Una macchia mediterranea. Una scogliera a picco sul mare turchese. Una pietraia sotto un sole infuocato. Un sambuco. Era un modo per condividere un grande amore. Una nostalgia. Che la terra, la «sua» terra, gli sia leggera.

Gian Antonio Stella

(29 marzo 2015)