Quando nasci sopra una striscia di terra sul mare, i tuoi piedi raramente portano le scarpe e questa condizione ti insegna a camminare meglio nel mondo.
Sono cresciuta con questa convinzione – scalza e senza troppo radicamento – tra gli scogli, con alle spalle una distesa di elicriso e ginestre che sale verso un promontorio di ginepri secolari a picco sul mare. In un paese che si è sviluppato grazie all’immigrazione di alcuni pescatori ponzesi, alla ricerca di una vita migliore dall’altra parte dell’orizzonte. Questo luogo, oggi meta turistica ambita, si chiama Golfo Aranci.
“Golfo degli Aranci”, così come scritto nelle carte dai piemontesi che pensarono di tradurre dal gallurese l’appellativo di quel territorio a nord-est dell’isola: “Golfu di li ranci” ovvero “Golfo dei Granchi”.
“Figari” nella toponomastica locale, a indicare una superficie rigogliosa di piante di fico.
“Figari” per i paesani più romantici che vorrebbero conservarla cristallizzata nel tempo.
“Figari” per chi pensa che usare il nome storico sia un modo per preservarne i sentimenti comuni e l’identità. Si, l’identità!
Perché se vivi in Sardegna ma nella tua comunità non si parla in sardo, non c’è un costume, una maschera, se non ti riconosci in una cultura immutata ma vivi in un luogo influenzato da ciò che si è imposto via mare, la questione identitaria è una sfida di tutti i giorni.
Il mare è la cultura, la costa è il campo, la barca è il cavallo, a volte la trebbia, all’occorrenza un rifugio e una casa. Nella comunità golfarancina l’adattamento è un pregio e l’accoglienza è un segno che ci accomuna a tutti quelli che nella vita sono stati a loro volta accolti. Un’identità in continua evoluzione.
Un eterno navigare tra ciò che eravamo e ciò che saremo, in un luogo ormai radicato ma sempre aperto al resto del mondo.
Quando Giulio Angioni vide per la prima volta le immagini di una vecchia Golfo Aranci marinara scattate dalla fotografa Marianne Sin-Pfältzer scrisse:
In un’Isola dove amiamo identificarci in termini di costanza immutabile, di resistenza strenua a ciò che ci si impone via mare, la dinamica contrastiva fra tradizione e mutamento, fra vecchio e nuovo, che è di ogni luogo e di ogni tempo, di fronte a queste immagini si mostra lacerante. Il luogo comune, in parte giustificato, che i sardi siano tutt’altro che gente di mare, al massimo gente di laguna al servizio dei baroni, ha avuto la sua parte nel considerare troppo secondaria la cultura tradizionale del mare, rispetto alla pastorizia e all’agricoltura, e anche all’attività mineraria.
Paola Masala è una manager culturale. Coordina il Teatro Eliseo di Nuoro per Sardegna teatro dopo dieci anni nel ruolo di Responsabile comunicazione e marketing per il Teatro Massimo di Cagliari. E’ stata Delegata Regionale per il Fondo Ambiente Italia Sardegna. Collabora con diversi soggetti culturali tra cui Ilisso edizioni, IED e Legambiente.