“Nemico invisibile”, “Armi a nostra disposizione”, “I nostri eroi in trincea”, fino al più esplicito e didascalico “Siamo in guerra”. Così non mi ha sorpreso che in questi mesi, i mesi della pandemia e del lockdown, in tanti mi abbiamo chiesto di commentare questo profluvio di metafore belliche: ad avere memoria diretta della guerra siamo ormai in pochi, e io sono tra loro. Anzi, per essere precisi, appartengo al gruppo ancora più ristretto di quanti all’esperienza della guerra hanno unito quella del lager.
La mia risposta è che le analogie ci sono. Le ho proprio viste. Quella tra i camion di Hersbruck (il “mio” lager) e i camion militari che trasferivano i morti dal cimitero di Bergamo, che non era più in grado di smaltirli, ad altri luoghi di cremazione. Ma è un’analogia diciamo visiva, che ho ricavato dalla cupezza di quelle immagini, oltre che dal dolore dei parenti che, proprio come i parenti delle vittime del lager, non hanno potuto salutare i propri cari. Agli uni e agli altri il fato ha voluto che toccasse il dolore assoluto di quella che Foscolo chiamava “illacrimata sepoltura”.
Ma le analogie si fermano qua, se parliamo delle analogie riferibili, comprensibili a tutti, non retoriche e fuorvianti. Perché in questo triste gioco delle analogie non bisogna correre il rischio di compiere forzature che facciano perdere di vista un punto fondamentale: che le vicende di 75 anni fa costituiscono un unicum, uno specifico orrore. Proprio questo, d’altra parte, continua a darmi la forza di combattere perché quell’orrore non si ripeta più. E’ una forza che deriva da altre analogie, personali, intime. Che non pretendono di mettere sullo stesso piano vicende così diverse, ma servono a chiarire il mio punto di vista. Ed è così che le propongo: la realtà presente filtrata dallo sguardo di un uomo che quei fatti li ha visti quando era poco più che un ragazzo e se li porta dentro da tutta la vita.
Il termine “quarantena”, per esempio, non ha potuto che evocare in me il periodo trascorso dall’arrivo al campo di Flossenbürg il 7 settembre 1944 al trasferimento a Hersbruck del 30 settembre successivo. Tre settimane di “isolamento” con 400 miei compagni di deportazione stipati in una baracca che ne avrebbe potuto contenere al massimo 100. Ecco, per usare una delle espressioni tanto in voga oggi, potremmo dire che il cosiddetto “distanziamento sociale” non era garantito. Ma sbaglieremmo. Perché le SS si guardavano bene dall’entrare nel campo. All’interno tutto era affidato ai kapò. I virus non erano ancora stati scoperti, ma grazie a Dio, non mancavano tifo petecchiale, dissenteria e tubercolosi. E qua entriamo in qualcosa che è sempre meno nota e sempre meno ricordata: la follia della logica nazista. Ancora mi domando perché tenessero “in quarantena” migliaia di internati destinati comunque a morire di fame e di lavori forzati nel giro di un paio di mesi.
Hersbruck non era propriamente un campo di sterminio come Auschwitz-Birkenau, ma la mortalità raggiunse quasi il 90 per cento dei 20mila sventurati che vi furono trasferiti. Ed erano tutti giovani, perché gli ultracinquantenni erano considerati anziani, tenuti in genere a Flossenbürg e esentati dai lavori forzati. Morivano comunque di stenti. E i morti erano tanti che non sapevano come smaltirli. Nei primi mesi di attività del campo provarono a inviare i cadaveri al forno crematorio della vicina città di Norimberga. Poi rispedirono i moribondi al campo principale di Flossenbürg, dotato di un unico piccolo forno. Ma con l’epidemia di tifo petecchiale dell’inverno 1944-45 i corpi vennero conservati in una baracca apposita, dove congelavano naturalmente. E, all’inizio della primavera, vedevo arrivare il camion che, come seppi successivamente, portava i corpi a essere bruciati in cataste fuori dalla vista dei cittadini di Hersbruck.
Sono così tornato all’analogia visiva di cui ho detto all’inizio: quella tra le immagini dei camion. Ma subito le due immagini si dissolvono e la memoria torna a quel tempo e a un paradosso: a quel tempo l’immagine dei camion di Hersbruck era in una certa misura l’immagine di un residuo di civiltà. Già, perché quel trasferimento di corpi poteva essere fatto rientrare nell’ambito delle “misure igieniche”: non aveva niente a che vedere con le camere a gas e i forni crematori di Auschwitz-Birkenau.
Mi rendo conto che queste riflessioni possono apparire non adatte a una fase dell’anno che si vorrebbe spensierata come il Ferragosto. Ma non ho fatto altro che rispondere a domande che si sono accumulate in questi mesi. E inoltre ritengo che – altra frase sentita e risentita – il “non abbassare la guardia” vada riferito non solo al Covid-19, ma a tutti i virus, anche a quelli che avvelenano e confondono la memoria. Quanto alla pandemia, il ministro Speranza ha annunciato che le prime dosi di vaccino potrebbero essere disponibili alla fine di questo 2020. Potrei considerarlo un regalo per i miei 102 anni, visto che li compirò il 15 novembre. Nell’attesa, comunque, farò il solito vaccino contro l’influenza. Non ho fretta.
Buon Ferragosto a tutti.
Vittore Bocchetta