Mettiamo che una ragazza torni a casa, dopo lunga prigionia, sequestrata da terroristi fanatici, non più cristiana, ma musulmana. Che accadrebbe in un Paese normale? Probabilmente sarebbe accolta con tutto l’affetto che una comunità può esprimere a una sua figlia che ha sofferto. Certamente ci sarebbero indagini, la ragazza verrebbe interrogata dagli inquirenti, per accertare quanto accaduto nelle trame del sequestro. E anche polemiche, inevitabili ad ogni latitudine, ma non la canea di cui è vittima Silvia Romano in Italia.
Silvia, la ragazza tanto attesa, la nostra connazionale rapita mentre si dedicava ai più deboli, alle popolazioni dell’Africa. Silvia è stata liberata, dopo 535 giorni in mano ai fondamentalisti islamici. E L’Italia tutta ha gioito, pianto, ha detto:”Finalmente! C’è giustizia!”. Per un attimo. Poi Silvia è arrivata. Non è “la nostra Silvia”. Perché quella veste verde? E verde anche il fazzoletto sui capelli? Silvia ha abbracciato l’Islam, “ci ha traditi”. Non più la sfortunata ragazza amata. Non più la giovane donna che merita tutta la tenerezza del mondo. Sospetti, minacce, accuse. E odio. Quell’odio così frequentato nel nostro Paese. Sport preferito, la caccia alle streghe, al diverso, agli altri. Ma, come fa quella canzone, “gli altri siamo noi”. E noi, visti da vicino o da lontano, siamo fatti piuttosto male. Prevale, nel senso comune, un’assoluta incapacità di tentare di capire quel che soffre una giovane donna, privata della libertà non per un giorno o per una settimana – che già sarebbe un trauma, – ma per un anno e mezzo. Un cambio di civiltà nelle mani di
Al-Shabab , cellula somala di Al-Quaida, formalmente riconosciuta tra le costellazioni della Jiahd.
Immaginiamo la scena come nella sequenza di un film. Silvia viene sorpresa da malviventi comuni, forse assoldati dagli stessi fondamentalisti che hanno preparato il
sequestro e a cui la ragazza viene venduta. Qui comincia la lunga marcia dal Kenya alla Somalia. Una marcia che dura settimane, mentre Silvia crede di non farcela, di morire, nella fatica di sentieri inaccessibili e strade di fango. Lei ha detto che quello è stato il momento più difficile della sua brutta avventura. Quindi l’arrivo al covo, con diversi spostamenti, e il doversi adattare ad una condizione cui molti non avrebbero retto. Ma Silvia è una ragazza di fede, capace di comprendere anche chi le fa del male. Le presentano una copia del Corano e legge e si converte. In uno scenario che non conosciamo: forti pressioni, possiamo immaginare, e minacce.
Silvia dice di aver fatto la sua scelta in piena libertà. Il che è un po’ difficile da credere, non foss’altro perché era prigioniera. Ma, secondo gli esperti, è la nuova strategia del “Partito dei Giovani” – questa la traduzione di “Al-Shabab”, fondamentalisti islamici responsabili di crimini sanguinari – dall’esibizione dei cadaveri all’ostentazione, davanti all’Occidente, del corpo degli ostaggi. Del corpo di una giovane donna sorridente. Una giovane donna che incredibilmente, anche in Parlamento, è stata definita “neo-terrorista” da un deputato della Lega. È il mondo alla rovescia, come in una commedia sado-masochista, la vittima equiparata al carnefice. Solo perché professano la stessa religione. Sarebbe come dire allora che tra i Cristiani non ci sono ladri né delinquenti, perché tutti dalla parte giusta.
Dunque una società che si rifiuta di capire, in nome di una purezza che produce razzismo, solleva muri e progetta nazionalismi, suprematismi, “democrazia illiberale”, forme di convivenza assolutamente realizzabili, già esistenti in Europa, dove si è consumata la tragedia del fascismo e del nazismo.
Tornando a Silvia. Come si può non capire la sofferenza, l’annientamento della personalità, la violenza, cui è sottoposto un ostaggio. Soprattutto una donna, che alla fine, per sopravvivere, s’aggrappa alla fede, anche al Corano. Noi in Sardegna abbiamo vissuto la stagione dei sequestri. L’hanno vissuta soprattutto le vittime e le loro famiglie. Conosciamo il fenomeno devastante, anche i falsi miti che in altri anni hanno suscitato ammirazione e hanno prodotto commissioni d’inchiesta, libri, film, fiumi di cronache. Ma non hanno costruito un senso comune, una cultura della solidarietà e del dialogo. L’Hotel Supramonte di Fabrizio De Andrè è una canzone che tutti gli italiani cantano. Ma non sanno o si rifiutano di capire che in alcuni momenti anche il più crudele degli assassini può apparire un amico. Che donne e uomini hanno bisogno di tempo per scrollarsi di dosso un’esperienza drammatica. Il tempo che a Silvia Romano, oggi in Italia, molti vogliono negare.
Attilio Gatto