La bandiera dell’insularità diventi lo strumento per rendere competitiva l’economia della Sardegna

E' necessario ottenere dallo Stato e dall’U.E. quelle defiscalizzazioni che consentano alla Sardegna di superare permanentemente le dure diseconomie impostole dalla geografia.

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Sull’insularità, o – meglio – “sull’insularità in Costituzione”, si va accendendo, soprattutto a sinistra, un confronto alquanto critico. Con un crescendo di distinguo, di cui ne sono divenuti arena non solo i media tradizionali, ma soprattutto la generosa ospitalità dei social network. Può quindi essere utile parlarne pacatamente, discuterne serenamente, tenendosi al di fuori da ogni preconcetto di schieramento. Perché l’insularità, da condizione geografica, non debba costituire e pesare per noi sardi come mutilazione sociale. Perché vivere e lavorare in un’isola non rimanga un peso sociale ed economico diseguale e penalizzante. Perché lo Stato e l’Europa si facciano carico di questo handicap strutturale e permanente.
Certamente andrebbe valutato con attenzione se l’ottenimento di un suo riconoscimento costituzionale possa modificare, e attraverso quali strumenti, gli evidenti svantaggi d’essere isola.

Per osservare quel che oggi va accadendo sull’argomento, e per come è possibile interpretare gli obiettivi dei suoi promotori, l’appello alla mobilitazione popolare sembrerebbe essere inteso come una semplice bandiera, sotto la quale ritrovarsi unitariamente per rivendicare allo Stato le sue troppe e ripetute disparità di trattamento nei confronti di chi, come noi sardi, ha il mare come margine e confine.

Una bandiera, si è detto, che può essere avvicinata ad altre due che garrirono al vento nella nostra storia contemporanea: quella della Rinascita, per liberarsi dalle diseguaglianze esterne nei confronti delle regioni continentali, e – ancora – quella delle Zone interne, per porre fine alle diseguaglianze interne fra le aree della polpa e quelle dell’osso. Ambedue – ricordiamolo – furono sventolate e fatte proprie, pur con differenti intendimenti, da uno schieramento popolare in indifferenza di militanza politica.

Il problema, allora come ora, è per quale scopo – economico, sociale, culturale – la bandiera dell’insularità venga issata per raccogliere adesioni e consensi. Cioè se venga finalizzata per ottenere una migliore dotazione infrastrutturale e per sostenere lo sviluppo economico, oppure se debba essere uno strumento per rafforzare l’identità autonomistica e per annullare le sperequazioni del rapporto Regione-Stato-UE. Ed ancora – come diversi intellettuali sostengono – abbia il compito preminente di esaltare le nostre diversità ambientali ed il nostro patrimonio identitario: culturale, linguistico, storico, naturalistico, archeologico…

Credo infatti che al di là dell’affermazione assai generica, banale e retorica che questa per l’insularità sia, per noi sardi, “la battaglia di tutte le battaglie”, non sembrerebbe si sia andati con le proposte. Per prudenza, forse, in modo da non creare divisioni ed anche, ritengo, per non avere ancora ben chiaro su quali effettivi scopi e benefici puntare.

Non appare quindi molto semplice avere una chiara lettura di quel che potranno valere, se ottenute costituzionalmente, le prerogative insite nel riconoscimento dell’insularità. Rimane però il convincimento (che è – chiarisco – personale) che alla sua bandiera sia utile e giusto unirsi. Come lo fu, ricorderò, per la Rinascita e per le Zone interne.

Perché anche in questo caso sono le diseguaglianze con le regioni continentali a dover essere colmate. Diseguaglianze che toccano certamente, con impatto chiaramente negativo, l’economia come la società dei sardi. E che già interessarono i nostri padri costituenti nel 1948 che, grazie alla Legge costituzionale dello Statuto autonomistico, decisero con l’articolo 13 che “lo Stato col concorso della Regione dispone un piano organico per favorire la rinascita economica e sociale dell’Isola”. Con ciò riconoscendo le nostre diseguaglianze ed i nostri ritardi.

Di piani per la Rinascita – ricordiamolo – ne furono redatti diversi, i principali nel 1962 e nel 1974, ma i risultati non furono pari alle attese (ed agli stanziamenti statali utilizzati), anche se contribuirono a modernizzare e ad elevare le condizioni sociali delle popolazioni isolane (il prodotto per abitante avrebbe fatto allora un balzo pari a due volte, avvicinandosi, con il 75 per cento, a quello del Centronord).

Per quel che si evince dalle cronache e dai messaggi, sarebbe poi il dettato di quest’articolo 13 (da riproporre perché tuttora vigente) uno dei motivi divisivi o, almeno, il più chiaro rilievo critico mosso dagli obiettori odierni. In gran parte militanti dell’area cosiddetta progressista, la più vocata, per tradizione mai smentita, al frazionismo.

Per quel che detterebbe l’esperienza, il militare sotto la bandiera dell’insularità (e di quel che significa come diseconomia permanente) imporrebbe di andare oltre il concetto di “piano” per introdurre al suo posto degli automatismi – soprattutto nel campo della fiscalità – che attenuino quelle diseconomie che oggi penalizzano le imprese, i trasporti, la stessa vita in Sardegna. Si pensi, ad esempio, all’IVA, all’IRPEF, all’IRI, all’IRES, fino alle accise sui carburanti, etc. etc.

Degli studi effettuati da autorevoli centri di ricerca qualche anno fa si evince che le diseconomie dell’insularità pesino attorno al 20-25 per cento: nel senso – per chiarire – che sul nostro prodotto interno lordo, ad esempio, i costi risultano di quasi un quarto maggiori di quanto registrabile nella penisola. Tenendo ancora presente che la sola assenza del vantaggio di prossimità (l’advantage of proximity degli economisti anglosassoni) con le regioni più avanzate – esistente, ad es., fra Marche ed Emilia o fra Veneto e Lombardia – inciderebbe per l’Isola per un buon 6-7 per cento. Prossimità che significa – chiariamolo – facilità di interscambi, di conoscenze, di know-how, di legami terzisti, ecc.

Conclusivamente, per ridare alla Sardegna la giusta competitività occorrerebbe dare il giusto riconoscimento agli svantaggi dell’insularità, ottenendo così dallo Stato e dall’U.E. quelle defiscalizzazioni che servano a superare permanentemente le dure diseconomie impostole dalla geografia.

Sarà poi questa la vera ragione per cui si ritiene di dover militare sotto la bandiera dell’insularità. Come riconoscimento e come riforma.

Paolo Fadda

(Economista, saggista, già dirigente del Banco di Sardegna)