La crisi del prezzo del latte: le cause e i rimedi. E intanto vietare (come in Francia) le vendite sotto costo

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La vertenza sul prezzo del latte in Sardegna ha attirato l’attenzione dell’opinione pubblica non solo regionale, ma addirittura europea ed internazionale. Quando un produttore butta via il suo prodotto faticosamente ottenuto dopo tanti sacrifici è difficile che non susciti la solidarietà dell’opinione pubblica, senza alcuna eccezione. La vertenza si sta sviluppando senza arrecare alcun danno o impedimento ai cittadini, pure se più di qualche tensione si sta verificando tra chi, con i “presidi”, oltre a non versare il proprio latte al caseificio impedisce anche il conferimento a quei pastori che, pur condividendo la vertenza, non accettano di buttare via il proprio latte.

La crisi del prezzo del latte. Ma veniamo alle ragioni dei pastori, cioè alla loro rabbia di fronte ad una proposta degli industriali di pagare il latte 60 centesimi al litro e riassumiamo i motivi della crisi. Il problema è questo: in Sardegna, più o meno nella stessa misura ogni anno, si producono circa 330 milioni di litri di latte pecorino da parte di poco più di 12mila aziende. Abbiamo tre DOP, il pecorino romano (formaggio essenzialmente da grattugia di 5-6 mesi di stagionatura), il pecorino sardo (stagionatura media di 3 mesi), il fiore Sardo (a latte crudo e affumicato, 4 mesi di stagionatura). Il pecorino romano assorbe circa il 60 per cento del latte trasformato; se ne vendono circa 250.000 quintali all’anno; del pecorino sardo DOP e del Fiore sardo si fanno solo piccolissime produzioni che messe insieme non raggiungono più del 5 per cento del latte trasformato. Il 35 per cento restante viene trasformato in formaggi pecorini tipo il pecorino sardo DOP, ma non registrati nella DOP, oltre ad alcuni formaggi freschi di diversa tipologia.

I problemi nascono nel momento in cui la produzione di pecorino romano va ben oltre i 250.000 quintali annui. Il Consorzio di Tutela del pecorino romano ha stabilito in 280mila quintali annui la produzione massima (che è già di più di quello che si vende) definendo delle quote per ogni caseificio e delle penali per chi sfora queste quote. Ma allora perché i caseifici, sia privati che cooperativi, le sforano? Per due ragioni: 1) perché le penali sono troppo basse; 2) perché fare il pecorino romano costa meno che fare gli altri formaggi e permette di avere un formaggio che ha maggiore tempo per essere venduto (shelf life) e meno costi di manutenzione.

Se la stagione produttiva è buona, non si verificano epidemie (ricordate la lingua blu?) e non ci sono particolari calamità naturali, la sovrapproduzione di latte è certa e porta i caseifici a produrre il formaggio meno complicato da tenere nelle cantine e più facile da manutenzionare (pulire); appunto, il pecorino romano. Ciò però comporta che la sua offerta sale più della sua domanda ed il suo prezzo sul mercato scende. A cascata scende il prezzo del latte ovino che, storicamente, è stato ancorato al prezzo del pecorino romano trascurando che un buon 40 per cento di formaggi prodotti sono diversi dal pecorino romano e venduti a prezzi molto più alti.

Quali rimedi. I rimedi alla ciclicità delle crisi del prezzo del latte, o meglio del prezzo del Pecorino romano, sono diversi:
1) Incentivare una maggiore diversificazione delle produzioni ed anche una destagionalizzazione in modo da produrre formaggi freschi nel periodo estivo, cioè di maggiori consumi in Sardegna.
2) Esitare una quota di latte (30 milioni di litri annui) al mercato del latte tal quale, gestito con regia unica al fine di non svendere lo stesso latte.
3) Autorizzare il Consorzio di Tutela del Pecorino Romano a negare le fascere che etichettano il pecorino romano per le quantità prodotte oltre le quote assegnate.
4) Modificare il disciplinare del Pecorino romano DOP con minore percentuale di sale al fine di esitarlo anche come formaggio da tavola.
5) Impegnare i trasformatori a non vendere i formaggi pecorino romano al di sotto di una certa soglia 6-7 euro/kg.

Cosa fare nell’emergenza. Queste ricette possono risolvere i problemi strutturalmente; vanno attuate quanto prima, ma intanto va superata l’attuale crisi. Fin qui l’intervento pubblico si è orientato al ritiro di pecorino romano con destinazione ammasso per indigenti e al ritiro per stoccaggio temporaneo di altre quantità di formaggi pecorini. Con le disponibilità messe in campo da Regione e Ministero (45-50 milioni di euro) si arriverebbe ad un ritiro dal mercato (definitivo o temporaneo) di una quantità vicina a 80.000 quintali di pecorino romano (mai nella storia del pecorino romano si è fatto un intervento così massiccio). Nel contempo, a fronte di una richiesta dei pastori e delle organizzazioni agricole, di 1 euro/litro, è stata avanzata una proposta, dai trasformatori, per riconoscere 72 centesimi/litro come acconto e poi un saldo a seconda di quanto salirà il prezzo del latte da qui ad ottobre prossimi, a seguito degli interventi pubblici sulle eccedenze. Tale proposta non è accettata da pastori ed organizzazioni: troppo basso il prezzo di acconto e ancora vago il meccanismo per valutare i prezzi medi di riferimento del formaggio.

Se si considera che la crisi è stata generata perché nell’ultima stagione produttiva si sono prodotti 341mila quintali di pecorino romano (91.000 quintali oltre la media annuale delle vendite), ovvio che togliendo 80.000 quintali dal mercato si genera un nuovo equilibrio tra domanda ed offerta che farà salire il prezzo del formaggio e permetterà un innalzamento del prezzo del latte. Ma i pastori dicono che anche gli industriali devono scommettere su questo rialzo tanto più che sono i reali beneficiari dell’intervento pubblico mirato, appunto, all’acquisto di formaggi invenduti e devono dare un acconto ben superiore a 72 centesimi/litro.

Non tollerare più acquisti sottocosto. C’è, però, un nodo fondamentale che richiama problematiche emerse anche per i cerealicoltori, per gli orticoltori e per tutti i settori produttivi, in definitiva: le crisi di mercato sono ormai ricorrenti per diversi motivi, causate dalla globalizzazione dei mercati stessi, dalla libera circolazione delle merci realizzata senza una minima integrazione delle politiche sociali e della sicurezza alimentare. Perciò è lecito domandarsi se l’intervento pubblico, in una Repubblica fondata sul lavoro come l’Italia, non debba essere accompagnato da una norma che definisca, una volta per tutte, che è proibito acquistare e vendere sotto costo qualsiasi prodotto alimentare, non solo il latte o il formaggio.

In Francia dal 1° gennaio è entrata in vigore la legge sull’alimentazione che obbliga le catene dei supermercati a vendere i prodotti a un prezzo non inferiore a quello d’acquisto maggiorato del 10 per cento. In sostanza è stato bandito il sottocosto; non è più possibile praticare i cosiddetti prezzi civetta, cioè mettere un paniere di prodotti a prezzo super basso per attirare il consumatore e vendere poi gli altri prodotti con ricariche “normali” o anche superiore alla normalità. Bandite anche le promozioni o non regolamentate.

Ora domando perché in Italia non possiamo fare altrettanto accompagnando la norma “francese” con l’obbligo di non acquistare o vendere prodotti alimentari al di sotto del loro costo medio di produzione? Subito sento i difensori del libero mercato che dicono: ma così si limita la libertà d’impresa! Io rispondo che allora perché non stabiliamo che i salari dei dipendenti sono a libera discrezione dei datori di lavoro? E’ ovvio che no. La libertà di impresa non può voler dire possibilità di disconoscere la dignità del lavoro, anche dei lavoratori autonomi come sono, in realtà, gli stessi pastori.

Se un trasformatore è libero di vendere il formaggio al prezzo che vuole, se una catena di supermercati è libera di fare le aste (come regolarmente fa) al massimo ribasso per cui acquista formaggio pecorino romano a 4 euro, ovvio che poi il prezzo del latte sarà da fame. Se, invece, fosse approvata una norma contro il sottocosto, ne avrebbe vantaggio non solo il pastore ma anche il trasformatore che sarà sì obbligato ad acquistare il latte al prezzo minimo di costo di produzione (ISMEA lo calcola a 77 centesimi), ma avrà, contemporaneamente, il diritto di vendere non al di sotto del prezzo minimo di produzione del formaggio; quindi l’acquirente di formaggi non potrà più fare aste al ribasso o riconoscere un prezzo del formaggio sotto il suo costo di produzione, cioè conteggiando nei costi di produzione del formaggio anche il costo del latte pagato a un prezzo non inferiore al suo costo medio di produzione.

Le soluzioni non sono semplici. La questione è assai complessa e riguarda non solo un problema economico, ma i tanti risvolti di natura sociale che accompagnano la storia della pastorizia in Sardegna così fortemente legata al mondo rurale dell’Isola. Mi si permetta una riflessione finale: chi, come il Ministro Salvini, ha detto che in 48 ore si può portare il prezzo del latte ovino a 1 euro, fa l’ennesima promessa che non può mantenere! Occorre mettere in campo diverse azioni e strategie chiare con riforme strutturali della situazione in essere e, nel frattempo che le riforme danno i loro risultati, accordare un prezzo minimo dignitoso e legiferare a tutela di chi produce.

Ignazio Cirronis

Presidente Copagri Sardegna