Matteo Salvini, nuovo Mussolini o vecchia macchietta italica?

"Gialloverdi e camicie nere", un saggio di Salvatore Sechi uscito profeticamente alla vigilia dell'incredibile "estate di Papeete" mette a confronto i modi del "capitano" e quelli del capo del fascismo. Per concludere che il leader della Lega non ha la statura del duce. Ma attenzione: non è detto che il ridicolo escluda il pericolo...

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C’è stata un’affermazione, nelle cronache politiche balneari di questo nostro bel Paese, che ha dato una scossa a molta gente, di preoccupazione in alcuni e di sorpresa in altri. “Chiederò pieni poteri per governare l’Italia”, era questa l’affermazione circolata fra i bagnanti dell’Adriatico e nelle imbarazzanti esposizioni in facebook di un ministro incontinente. Era stata proprio questa richiesta di Matteo Salvini, nel pieno del suo straripante ego ministeriale, a sorprendere e ad apparire a molti, come non molto differente, nella sostanza, a quel che disse il 3 gennaio del 1925 Benito Mussolini, dando così inizio a quella che sarà la dittatura delle camicie nere.

C’è stata quindi la sensazione di un possibile immanente pericolo per una deriva antidemocratica negli atteggiamenti, chiaramente strafottenti ed impudenti, del leader della Lega. Anche perché il suo amore per le divise militari, le sue sfrontatezze da bullo di periferia ed il suo perentorio vociare da demagogo, parevano elementi validi per poterlo candidare alla cittadinanza onoraria di Predappio.

Partendo quindi da queste notizie, amplificate non poco dai media nazionali (e non solo), ho voluto leggere, con molta curiosità ed altrettanto interesse il saggio – arrivato in questi giorni in libreria – a firma dello storico Salvatore Sechi, dal titolo Gialloverdi e camicie nere: Di Maio, Salvini e il fascismo (editore goWare di Firenze, 170 pagine, 12,99 euro).

Anche se poi quel pifferaio padano, che orgogliosamente s’apprestava a voler suonare la carica, verrà poco dopo sonoramente suonato, come recita un detto popolare. Tanto da far dire a qualcuno che anche per lui fosse “finita la pacchia!” degli agi del Viminale. Segnalando così le sue differenze con il vero uomo di Predappio, che un errore simile non l’avrebbe certamente commesso.

La curiosità era dettata dalla stima dell’autore del libro e dalla sua obiettività d’analisi che m’aveva fatto tanto apprezzare la sua scrupolosa narrazione del controverso passaggio, nel primo dopoguerra, dalle camicie grigioverdi degli ex combattenti a quelle nere importate nell’isola dal prefetto fascista Gandolfo, per dare vita a quella stagione politica che verrà definita del sardofascismo (Dopoguerra e fascismo in Sardegna, edizioni Fondazione Luigi Einaudi, Torino 1969).

Da qui la mia curiosità per conoscere cos’hanno, e se lo hanno, di diverso, queste camicie verdi dell’esercito padano rispetto alle nere dell’altro ieri? Sechi infatti si domanda “il perché nei confronti di Salvini sia scattata l’accusa di emulo, ripetitore, fan o mosca cocchiera del fascismo”. Ed ancora: appare “realistico, a suo dire, questo timore d’una inclinazione della Lega salvinizzata verso una riedizione, una replica del nostro passato, cioè il fascismo”?

Non sono certo domande dalla facile risposta, anche se – come sostiene Sechi – il vitalismo, l’improntitudine e la violenza verbale mostrati dal leader leghista possono indurre a trovare delle somiglianze. Ed è da qui che parte quella che lo storico definisce la sua “perizia” su diversi aspetti dell’esperienza ministeriale e politica di Salvini. Valutando quei suoi atteggiamenti più come dei gesti, magari anche perentori, e non come degli atti concreti. Di fatto solo una dimostrazione verbale d’avere potere, d’insofferenza, od anche di ribellione, all’essere “costretto a passare nel campo minato delle pandette parlamentari e dell’inferno burocratico”.

Come i bravi e competenti analisti, Sechi offre alla lettura una diagnosi molto accurata, e per tanti versi assai convincente, di cosa sia stato – politicamente, economicamente e moralmente – il fascismo nei suoi vent’anni di dominio illiberale ed antidemocratico. La propone avvalorandola con gli scritti di due autorevoli studiosi e docenti sardi (Guido Melis ed Andrea Guiso) e sostenendola con la precisazione che, mentre il regime mussoliniano sia stato sì una odiosa dittatura, ma abbia saputo esprimere una sua valida classe dirigente economica ed amministrativa, per la Lega salviniana tutto ciò appare improbabile ed impossibile. Attorno a lui ci sono tanti, troppi Pepè le Mokò insieme a fanatici adulatori.

E le differenze che vengono fuori dalla perizia di Sechi riguardano anche lo stile del duce e quello del “capitano”. Quest’ultimo ha dedicato al suo lavoro al ministero neppure il cinque per cento delle quasi cinquecento giornate trascorse al governo. Mentre quel duce aveva mitizzato il lavoro diuturno anche con le luci del suo studio accese fino a notte tarda, Salvini correva per l’Italia a dispensare promesse; mentre l’uomo di Predappio aveva richiesto a tutti i suoi collaboratori l’efficientismo, l’organizzazione e la gestione ottimale del lavoro in tutte le sedi pubbliche, gli approfondimenti culturali e riformistici, il suo sosia padano si offriva sui social nel suo vagare per l’Italia, dispensando promesse e ricercando solo e soltanto nuovi possibili consensi elettorali …

Aggiunge ancora Sechi, cercando di meglio descriverne le diversità: il capitano Salvini “non è persona colta, e non è nota per essere un assatanato lettore. Pertanto non ha un progetto politico ampio ed organico come la costruzione di un regime dittatoriale”. Non ha, né dimostra di poter avere, le lucidità di un Mussolini seppure in sedicesimo. Eppure molte sue affermazioni destano delle perplessità, avendo indicato come paesi felici “per uno splendido senso di comunità”, la dittatoriale Corea del Nord e l’illiberale ed autoritaria Federazione russa di Putin; o, ancora, avendo paragonato l’Unione Europea all’Unione Sovietica di Stalin! Osservazioni e giudizi che denotano, ad esser attenti, una profonda incultura ed approssimazioni da bar.

Sechi aggiunge ancora, sarcastico, che appare più una macchietta che uno statista, più un arruffapopolo che un demiurgo. Concludendo che non può essere una camicia neroverde pur vestita di tutto punto, ad intimidire ed uccidere – ma solo a parole – gli avversari. Quel capitano non è niente più che una sorta di “padroncino delle ferriere” che indulge ad evocare complotti e congiure ai suoi danni, nel suo impegno a favore degli italiani. Nei confronti degli avversari “si limita a provocarli – aggiunge – a far sentire loro che, avendo vinto le elezioni europee, il comandante del Paese è solo e soltanto lui. Ciarla, grida, urla ma si agita solo per dare del pirla a Tria od a tacciare Conte d’essere schiavo e domestico della Merkel”.

Sarebbe molto sbagliato – conclude Sechi – “prenderlo sul serio quando fa la voce grossa e la faccia feroce, pensando che possa armare qualche macchina da guerra come un regime dispotico per stremare e mettere a tacere gli oppositori”. Ci vorrebbe ben altro.

Ma Salvini, il capitano delle camicie verdi, è soltanto una macchietta, una replica inconsistente di quell’eterno fascismo nostrano di cui hanno scritto Carlo Levi e Umberto Eco? L’affermazione di Sechi lascia dietro di sé alcuni dubbi, alimenta anche delle perplessità. Certo, la Lega non pare essere un nuovo fascismo, né Salvini pare essere un redivivo uomo di Predappio. Molti aspetti, ben evidenziati da questa perizia, lo confermerebbero. Il capitano viene indicato solo come un uomo forte, deciso, che se ne frega di tutto e di tutti, che decide senza le tante bizantinerie e le continue lentezze a cui ci hanno abituato i governi di centro-destra e centro-sinistra. Non certo (anche perché non ne avrebbe la statura) un prevaricatore delle regole e dei metodi democratici. Per questo piace, e sempre per questo gode – così pare – del consenso e del voto di due italiani su tre, delusi da governi spesso inetti e da un parlamentarismo confuso e pasticciato.

Per questo, fascista o non fascista, Salvini rimane un elemento di disturbo e di turbamento nella nostra democrazia. Augurargli quindi una definitiva sconfitta che segni il definitivo destino prossimo venturo del capitano delle camicie verdi, è un principio che ci trova molto d’accordo con Salvatore Sechi. Non averne paura, ma prenderne le distanze – politiche ed elettorali – pare quindi opzione da fare propria. Perché il Paese di politici come lui – strafottenti ed inconcludenti – non ne ha proprio necessità.

Paolo Fadda

(Economista, saggista, già dirigente del Banco di Sardegna)