Nei non-luoghi, alla ricerca della vita che ribolle

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Lei stava vicino al finestrino, aveva gli occhi neri ed era bionda, bionda per forza. I capelli lunghi, divisi da una riga centrale e, sulle labbra piccole, un rossetto già stinto che a casa doveva essere stato fucsia. Portava una di quelle pellicce alla moda, nera e col pelo molto lungo, dalla quale sbucava un vestito di viscosa verde bottiglia che finiva con un orlo di pizzo. Aveva delle scarpe stringate, nere, con un leggero plateau e un tacco largo, quadrato, di gomma. Poggiato sulle gambe uno zaino robusto.

Lui le stava a fianco, aveva occhi scuri e capelli radi, un cerchietto d’argento all’orecchio destro. Portava un maglione grigio su jeans neri. Sedeva con le gambe leggermente divaricate. Con la mano sinistra teneva il cellulare, che guardava continuamente.

Si tenevano per mano, con le dite incrociate e strette. Lui portava un anello largo, forse d’argento, sull’anulare destro. Gli anelli di lei, molti, avevano pietre appariscenti e sembravano d’oro.

Vicini e annoiati, sembravano sopportarsi appena. Si tenevano per mano e non si guardavano mai in faccia. Lei aveva la testa poggiata di lato, fissava un punto indefinito fuori dal finestrino, faceva domande a cui lui rispondeva con monosillabi. Erano compressi in uno spazio piccolo, tra due sedili appiccicati, enorme la distanza che li separava.

«Hai chiamato tua madre?»
«No»
«Arriveremo in tempo?»
«Ma che ne so…»

Così, per mezz’ora.

Nel corridoio, quasi a Cagliari, in fila per scendere, hanno lasciato andare le mani. Sono scesi piano, prima lui, poi lei. Lui è rimasto sempre qualche passo avanti, lei cercava di raggiungerlo, ma non ci riusciva, forse per i tacchi. Gli parlava, lui non la sentiva, non ascoltava

Fuori dalla stazione, al semaforo lui non l’ha aspettata, ha attraversato prima, con un arancione ormai quasi rosso e mentre raggiungeva l’altro lato lei ha gridato: “Non mi sembrava che fossi solo!”

Poi li ho persi:loro hanno girato verso viale Trieste, io verso il Largo.

Si chiamano nonluoghi i posti come le stazioni, spazi apparentemente vuoti di emozioni, in cui milioni di individualità si incrociano, a velocità isteriche. Ma a guardarle, certe mattine fredde e grigie di dicembre, sono posti che ribollono, scoppiano di turbamenti e trepidazioni, crocevia di sentimenti in divenire, di speranze possibilità, delusioni. Inizi e fini che non conosciamo, che ci sfiorano soltanto mentre, nella fretta, ci concentriamo sulle nostre di vite.

Michela Calledda