Il mio primo vero sguardo su Nuraminis me l’ha regalato un pastore. Era mio nonno. Lo chiamavano Maximinu, perché era il più piccolo della sua famiglia.
Un giorno venne a prendermi all’uscita di scuola. Avevo undici anni. Mi portò sulla collina più alta del paese, che i nuraminesi chiamano impropriamente su padru (il prato). Tirò fuori dalla bisaccia una scatoletta di sardine, il pane, due pomodori. Mangiammo seduti in cima alla collina, in silenzio. Il vento scuoteva l’erba alta, più a valle verso occidente il grano ancora verde formava onde su onde.
Davanti a noi, ai nostri piedi, c’era Nuraminis, come mai l’avevo vista. Il paese mi sembrava allo stesso tempo familiare e sconosciuto, vicino e lontano, piccolo e grande. Non riuscivo a capire perché case e strade fino ad allora familiari e scontate, potessero improvvisamente apparirmi ignote e misteriose.
L’abitato non era grande, ma la terra tutta intorno sì, arrivava fino alla linea dell’orizzonte. Tutto quello spazio che stringevo per la prima volta in un unico sguardo era nostro. Eravamo noi.
Così, quel giorno, senza dire una parola, mio nonno mi aveva spiegato una cosa importante: le persone si fanno paese quando capiscono la forma del proprio spazio. Uno spazio che da quel momento diventa la misura di tutte le cose, lo specchio dei propri limiti fisici e psicologici, la culla dei propri sogni, la sorgente delle proprie utopie.
Mostrandomi il mio paese da una prospettiva per me del tutto nuova, mio nonno me ne aveva svelato il volto misterioso, il lato più sfuggente che forse è anche quello più profondo. Provai un senso di meraviglia che mi avrebbe abitato per sempre, popolando la mia immaginazione giovanile di moltissime domande.
È cercando le risposte a quegli interrogativi che sono diventato quello che sono. Mi sono messo alla ricerca delle origini di Nuraminis, delle storie delle persone che nel corso dei secoli avevano dato vita alle sue architetture urbane e morali. Mi incuriosiva il mistero che le processioni spargevano al loro passaggio, avrei voluto capire il perché dei rituali, dei canti, dare un senso ai frammenti psicologici e architettonici di una vicenda che – allora non lo sapevo – è millenaria.
Una storia che si scorge dappertutto. Nella radice prelatina del nome del paese (Nur), tra i nuraghi fatti a pezzi dalle cave e dai tombaroli, dai frammenti di terme romane o nelle monumentali sepolture bizantine. Capitale della omonima curatoria giudicale, Nuraminis nel Medioevo si sdoppia. Ce n’erano due: una de susu e una de jossu. Il pievano della prima fu tra i pochi testimoni presenti alla consacrazione della chiesa cagliaritana di San Saturnino. Nel Trecento arrivarono però guerra e peste. Travolsero tutto e tutto si spopolò.
Ma questa è una terra tra le più fertili in Sardegna. Uomini e donne ci tornano sempre, appena possibile, per sfruttarla. Il villaggio rinasce nel Cinquecento, grazie a un pugno di pastori migranti in cerca di vita nuova. Insieme a loro ritorna la devozione per San Lussorio, che ancora oggi vive nella splendida processione di agosto che accompagna il santo alla luce di centinaia di candele e del tramonto. Intorno a quel martire, che tanto ha significato per la Sardegna, le storie del paese si annodano da sempre.
Quando ero ragazzino ho visto molti amori adolescenziali accendersi e spegnersi all’ombra del manto rosso di Lussorio e alla luce dei festeggiamenti in suo onore. Tutti a Nuraminis hanno almeno un ricordo intimo legato al santo. Del resto è a lui che i nuraminesi da sempre affidano il compito di rinnovare il vincolo che li unisce in comunità.
Crescendo ho potuto constatare che Nuraminis è un paese praticamente invisibile, anche perché non vuole o non sa raccontarsi. Forse perché la sua bellezza è sconosciuta anche a chi ci abita. Senza bellezza, la voglia di appartenere si intorpidisce, la comunità si sfrangia, tanti se ne vanno. Io tra quelli. Oggi, come cinque secoli fa, lo spopolamento si riaffaccia, lambisce questi spazi e lentamente li spinge verso la dissoluzione.
Però, andarsene non significa sempre e solo abbandonare. Per me è stato come tornare sull’alta collina de su padru, sedermi e mettermi a guardare il paese da una prospettiva diversa, completamente diversa da quella alla quale mi ero abituato e riscoprirne così il mistero, il fascino, rincominciando a interrogarlo con tante domande. È stato il mio modo diverso di appartenere, di restare paese, mentre diventavo anche altro, con altre persone, altrove.
Giampaolo Salice (1978) insegna Storia moderna all’Università di Cagliari, dove tiene anche un laboratorio di umanistica digitale. Studia il rapporto tra diaspore e colonizzazioni interne nel Mediterraneo tra Cinquecento e Settecento. Ha scritto un libro che racconta la formazione delle borghesie sarde. È presidente dell’Associazione Khorakhané, di cui è stato co-fondatore a Nuraminis nel 2010.