Molti di voi non sanno che a Musei c’era il Drive-in. Era uno spiazzo grande, di asfalto, posto tra la scuola elementare e l’ex scuola materna. Nonostante ci fossero piazze, vie e luoghi più consoni per socializzare, i giovani degli anni ’80 si ritrovavano lì, con auto, motorini e biciclette.
Il nome Drive-in gli era stato dato un’estate che avevano deciso di proiettare lì dei film all’aperto e le persone, oltre a portarsi le sedie da casa, ci erano andate anche in macchina a vedere i film. Non c’erano i pop-corn, né le signorine sui pattini con i vassoi o altre cose americane, ma noi avevamo un drive-in. Ci si divertiva stando insieme a raccontare fesserie, a provare a impennare con la bicicletta o i motorini. Alcuni ragazzi riuscivano a farlo perfino con il Benelli. Avete presente il Benelli? Ricordate quanto pesava?
Le imprese mirabolanti dei giovani consistevano nell’andare in due senza casco, con i capelli che finivano sempre in bocca, derapare e sgommare provando a far fumare le ruote. Anche se fumavano meglio le prime sigarette divise con gli amici.
Perché ci piaceva andare al drive-in? Era una zona poco illuminata e, rispetto ad altri luoghi, lontana dalle abitazioni, più riservata per tutti noi, sempre sorvegliati a vista da dietro le finestre di ogni famiglia. Sì, perché Musei è un piccolo paese, e anche se non ci sono i carabinieri, ogni abitazione ne aveva uno in borghese dietro la finestra. Eravamo sempre tutti sotto lo stretto controllo del comitato invisibile delle Pidance (pettegole), sempre pronte a riferire ai tuoi genitori cosa avevi fatto o non fatto, quando e a che ora, come e con chi.
Le Pidance te le ritrovavi in casa nel pomeriggio e, con la scusa di una visita e una tazza di caffè, riferivano ai tuoi ogni cosa, neanche avessero una videocamera con supporto audio. Non erano necessarie geolocalizzazioni o altri supporti tecnologici: bastava chiedere al comitato e si sapeva ogni cosa. Forse si tramandavano degli archivi segreti.
Alcune delle Pidance sapevano e ricordavano fatti di persone morte da decenni, e io non riuscivo quasi mai a capire di chi parlassero. Usavano sempre riferimenti precisi: fillu de, mulleri de, bixinu de (figlio di, moglie di, vicino di). Era difficile capire di chi si trattava se non avevi chiaro l’albero genealogico di tutte le famiglie del paese. O una chiara anagrafe dei soprannomi, che fioccavano in ogni discussione.
Alcuni erano obiettivamente bellissimi, e il più bello di tutti per me era John Calesse: un uomo vissuto molti anni prima e che io non avevo mai conosciuto, ma con un soprannome che evocava le praterie del West e i miti di Hollywood.
Il Drive-in era anche il nostro campo da calcio pomeridiano: lì si improvvisavano partite con ciabatte e scarpe a fare da pali della porta, e il portiere o un giocatore dovevano giocare scalzi, anche quando l’asfalto, nelle calde giornate estive, diventava rovente.
Quando il pallone andava nel cortile della scuola elementare o nel cortile della scuola materna, per recuperarlo si scavalcava la rete per l’una e il muro per l’altra. Scavalcare la rete era semplice, ma il muro dell’asilo era molto più alto nella parte interna: se non si era almeno in due, trovare una via d’uscita diventava un problema, in quanto le parti più basse del perimetro della scuola materna erano circondate dai rovi di more.
Il Drive-in al mattino appariva diverso, perché la notte lo rendeva attraente per i giovani, ma durante l’arco della giornata ritornava ad essere ciò che era: lo spiazzo per il mercatino del venerdì mattina.
Il mercatino è sempre stato molto piccolo, c’era un ambulante per la frutta e la verdura, uno per le scarpe, e uno per la biancheria e filo. Qualche volta veniva anche quello con i fiori, e uno per l’abbigliamento. A Musei non ci sono molti negozi, non so perché. All’epoca circolava un detto: “Se a Musei aprisse un negozio di scarpe, i bambini nascerebbero senza piedi”. Non so se il detto fosse legato a una maledizione, o fosse un modo per dire che gli abitanti di Musei tendono ad acquistare fuori. Come dire che non ci si aiuta a vicenda.
In ogni caso, una maledizione c’era stata. Quella lanciata dai frati gesuiti che, cacciati dal paese di Musei, lo maledissero, dicendo che avremmo avuto più topi che abitanti. In effetti il paese non è mai diventato grande, e la popolazione è stabile da decenni, e le donne sono sempre più degli uomini. Ma forse non era questo ciò che intendevano, perché in questo caso è dal 1700 che ci azzeccano.
Le serate al drive-in si chiudevano con l’ora del coprifuoco. Per noi era un’ora indefinita, saremmo rimasti fino a tardi al Drive-in.
Ma in quei tempi il cellulare non c’era, e gli orologi non andavano a tempo e i primi Casio digitali regalati per la Cresima duravano pochi mesi, e non si sapeva mai dove comprare le batterie. A definire un orario affidabile per il rientro a casa dovevano dunque provvedere i lampioni del paese. Come per Cenerentola, la nostra ora scoccava più o meno a mezzanotte, quando nelle strade rimaneva un lampione acceso e uno no, e mamma era lì fuori che aspettava perché comunque sempre, sempre ero in ritardo.
Cristiana Casu
Classe 1973, nata a Musei. L’amore per il disegno e l’illustrazione scandisce le sue giornate e studia al Liceo Artistico di Cagliari. Oggi lavora come bibliotecaria nel settore bambini e ragazzi. Organizza laboratori artistici per bambini e adulti dove il tema principale è l’arte. Cerca di dare ai suoi lavori la spensieratezza dell’infanzia. Vive con il marito, il figlio, il gatto e altri animali.