Un mosaico, dove ogni tassello è un frammento di vita. Anche quando sono solo resti di vite spezzate da fragilità o violenza. Non è forse una miscela di sfumature il colore dell’esistenza?
Con questa immagine ho vissuto e accettato i confini della mia pittoresca periferia, che disegnava un triangolo equilatero tra San Michele, Tuvixeddu e Is Mirrionis. Qui ai miei nonni materni e paterni fu assegnata alla fine degli anni ’50 una casa comunale ai piedi dell’omonimo colle, allora sterrato e pieno di viole. Per me erano semplicemente case, dove giocare con i tanti cugini dei tanti figli messi al mondo da nonna Bonina e nonno Rafilicu, comunista e lavoratore portuale. Sul campetto incolto di via Cortoghiana, ricoperto oggi di palazzi o nel largo marciapiede con le panchine lastrate di marmo, si affacciavano dei piccoli balconi: da lì ci tenevano d’occhio i vecchi. Spesso nonna Bonina, cuoca sublime, ci preparava pane e patatine fritte. Quando sudati e assetati imploravamo rumorosi, dalla finestrella del suo cucinino al primo piano signora Efisia ci dava l’acqua sempre fresca del rubinetto. C’era sempre odore di sugo nelle scale delle case popolari. Un profumo che mi ha accompagnato tutta la vita, consolidato nelle mie narici quando anche noi siamo finiti in casa comunale. A dieci anni ho imparato la parola “sfratto”, le conseguenze e le implicazioni sociali. Erano gli anni ’80 e grandi agglomerati vedevano la luce per dare riparo ai più sfortunati. Palazzoni spesso grigi e ripiegati su se stessi, ma che colorati e sventolanti panni stesi facevano apparire sempre addobbati a festa. La casa mi era sembrata bellissima e grande, grandissima. Io e mia sorella, che dormivamo nel divano e in un letto a mobile del soggiorno, avevamo finalmente una stanza tutta per noi. Ih, su prexu, quando siamo andati a comprare la cameretta in frassino! Che poi forse era solo color frassino. Ma se la passa ancora bene a casa dei miei: “Prima sì, che le cose si facevano per durare!”, dicono ogni volta. Secondo me le cose duravano perché ci avrebbero cancarato mani e piedi, se non ne avessimo avuto cura. Mobili, giochi e vestiti compresi. L’elisir di lunga vita delle cose di un tempo, diciamolo, era la minaccia di rimanere cancarati a vita.
Alle elementari in Piazza Medaglia, circondata e nascosta anche lei da un accrocchio di case popolari, c’era la mitologica maestra Anna Delia Pes. Per metterci in riga dava botte da orbi. Ci passavano tutti, maschi e femmine. Tirava calci che manco Pelè, ma pure i capelli se la presa era agevolata da una coda di cavallo. Per fortuna c’era Zaira, la bidella tuttofare. Accudiva e consolava i più sventurati. Qualche volta li ha pure lavati, prima di farli entrare in classe. Fu a quei tempi che presi l’abitudine di portare nella cartella un quaderno in più, per chi ne avesse avuto bisogno e non lo possedeva.
Alle medie Mameli tra la prima e la terza ho imparato a farmi i fatti miei, a difendermi e attaccare. ma solo per sopravvivere. I muscoli per affrontare la vita me li sono fatta grazie ai pesi di questa palestra che tra allagamenti, furto dei registri e risse furibonde mi ha licenziato con un distinto e il via libera verso qualunque scuola avessi voluto frequentare. Nel frattempo il Pacinotti era diventato il liceo di quasi tutta la famiglia. Non lo scelsi, ma tutto sommato, era lì: poche fermate del numero 3, lungo la traiettoria che da via Is Mirrionis porta in via Liguria. Pochi chilometri per entrare in un altro mondo. Qui, non credo per caso, ho iniziato a dire che vivevo in via Is Maglias. Nella mia mente la dorsale che dal quartiere portava “in città”. Come diceva mamma quando ci portava a fare un giro in centro a Cagliari. Era l’8, il tram dei miei desideri: quello che ogni tanto mi portava fuori dal mio amato quartiere malfamato. Anche se un giorno per sbaglio ce la stavamo finendo a Monserrato sul tragitto inverso. Sembrava di lasciarsi alle spalle quella striscia di Gaza, che nell’immaginario collettivo era un covo di spacciatori, drogati e delinquenti. Insomma, non proprio il luogo dove era bello avventurarsi per tutti i miei nuovi compagni di scuola. Per noi, che ci abitavamo, le cose erano diverse: nonostante l’eco delle bombe, delle sparatorie e delle bande armate avesse marchiato col sangue le nostre vie, a metà degli anni 90′ la nostra piccola patria stava cambiando. La Casa dello studente di via Monte Santo e le tante stanze affittate dagli studenti più squattrinati e costretti alla periferia urbana ne hanno mitigato l’invalicabilità ai forestieri.
Erano quelli gli anni anche della mia Università. Ancora una volta era il numero 8 a spianare la strada dei miei sogni. Ogni tanto, sgommando e impennando sul “Sì”, alla fermata inchiodava quello che per una settimana era stato il mio fidanzato alla Mameli. Mi accompagnava in Viale Fra’ Ignazio, ma senza sgommare o impennare. Sembrava contento che la mia strada, sebbene in salita, non fosse cattiva come quella che lo stava conducendo su una discesa senza ritorno. Le pere erano decisamente più attraenti delle mie parole sul comunismo, le pari opportunità e il diritto ad emanciparsi. A poco più di vent’anni, dentro una grotta della necropoli di Tuvixeddu, fu un’overdose a portarselo via.
Cinzia Isola è nata a Cagliari, è cresciuta tra San Michele e Is Mirrionis. Esule a Capoterra ha trascorso 36 dei suoi 45 anni in questi quartieri. Le radici ben salde in questi luoghi, le hanno permesso di crescere e osservare quel mondo da una posizione privilegiata. Ma mai dall’alto in basso. Anche se non ci vive più, sa che un giorno ci tornerà.