Quando mi è stato chiesto di raccontare Selargius ho accettato con lo stesso ingenuo entusiasmo che mi guida quando “ma io quasi quasi entro in questo lungo vicolo senza uscita con le macchine parcheggiate su entrambi i lati ché tanto poi già ci riesco a fare manovra”. Quello di quando so che qualcuno mi sta ascoltando e allora sfoggio una sconfinata magnanimità dando corda alla tizia del call center albanese, per poi sfuggirmi di mano e finire abbonata a un’offerta VANTAGGIOSISSIMA che per 36 euro al mese mi regala 50 SMS, 500 KB e 27 squilli, di cui 14 vincolati a mamma.
Ma tant’è.
Che poi non è che mi sia pentita per chissà quale motivo, io a Selargius voglio bene e questo voglio sia chiaro fin da subito. È solo che, a ben pensarci, non ci avevo mai pensato prima, e non è mica roba da poco fermarsi a riflettere sulle cose per la prima volta. E questo è successo forse perché Selargius è casa, e a casa non ci pensi mai se non quando ti allontani, mentre io a lei sono vicina vicina.
Selargius… ora che ci penso per me è un po’ come Balto. Avete presente, sì? Balto, il cane alascano che salva la bambina in fin di vita, quello che “non è cane non è lupo, sa soltanto quello che non è”. Selargius, per me, è esattamente così. Non è paese, non è città… È Selargius, una terra di mezzo fra Cagliari e le bidde, quelle che conosco perché i miei compagni di liceo erano “di lì”, e arrivavano da una zona indefinita oltre la 554 passando per Santu Nigola. Quindi, il primo dato: Mara, Settimo, Sinnai sono paesi, Cagliari è città, Selargius boh ma più città.
E data questa caratterizzazione così effimera ho pensato – dato che ormai è da fare – di raccontarla per parole chiave, temi scelti in maniera arbitraria e proposti totalmente random, ché tanto l’articolo è mio e ci scrivo un po’ quello che mi pare. E così, magari, vi offro lo spunto giusto per spenderci un’oretta, roba che poi potete fare un post sull’importanza di conoscere la propria terra e vi beccate una marea di like.
Quindi procederò per piccoli paragrafi – ne ho individuati tre –, che vorrei aprire con un lancio d’impatto, proprio come “Selargius: matrimonio, capperi e mandolino”. Anche se poi il mandolino non ce l’abbiamo, ma io ho una fissa per il ritmo delle frasi e mi serviva mettercene una segnaposto, che poi è rimasta perché mi fa simpatia.
Al primo posto, naturalmente, il matrimonio. Anzi Sa coja antiga, che per gli amici che ci leggono sarebbe “L’antico sposalizio”, la prima cosa alla quale credo pensino le persone quando – e se – viene chiesto loro di pensare a Selargius. Una cerimonia che è un po’ storia e un po’ cultura e un po’ pretesto per incontrarci in strada, anche se nessuno ha il coraggio di dirla questa cosa qui, perché le cose belle sono sempre molto difficili da dire. E che usiamo per fare la conta di quanti vicini abbiamo, visto che ormai le comunicazioni si sono ridotte a uno scambio di mucche e sementi su Facebook. Una festa dove si canta, si mangia, si balla, si mangia e poi a volte si litiga perché non si trova parcheggio ma poi si fa pace mangiando. Ma a cui voglio molto bene, un po’ anche perché è di settembre, come me.
Un altro spunto che non posso non inserire è invece quello sui capperi, una specialità famosissima di cui io ho scoperto l’esistenza solo di recente. Fatto sul quale credo abbia influito il mio viscerale disgusto per gli stessi, che mi inquietano come credevo potessero fare soltanto le anguille, le panade di anguille e le anguille fritte e questo governo. E invece non si smette mai di imparare: io non posso soffrirli, ma voi provateli ché fa tanto intenditori e papà dice che sono buoni.
Il terzo punto su cui vorrei porre la vostra attenzione è la spiccata vocazione imprenditoriale dei selargini. Che è confluita in una specializzazione in pizzerie, soprattutto al taglio, e parrucchieri. Molti, sempre, ovunque, che aprono, chiudono, riaprono e si spostano come non fanno nemmeno le scale a Hogwarst. E una menzione speciale meritano gli amici macellai, ché nemmeno loro scherzano mica ma ancora non possono competere.
In chiusura volevo raccontarvi di come, per me, Selargius sia Pepito (un bassinetto di cane classe 2012, ndr). E dico che è Pepito perché è lui la guida delle mie lunghissime passeggiate per le vie di Selargius, l’unico motivo per cui conosco ogni chiesa, ogni anfratto, ogni scorcio e centimetro d’erba gatta sotto la competenza comunale. Perché ho l’impressione che tendiamo ad avere bisogno di pretesti per scoprire, cercare e assaporare gli spazi e il tempo, e i Pepito sono un meraviglioso pretesto che vi consiglio di sfruttare.
Come ho fatto io per scrivere queste righe.
Veronica Secci
Nasce a Cagliari nel 1993 e ci resta un-paio-di-giorni-detto-alla-sarda, poi la portano a Selargius “vicino ai Salesiani” e lì sta ancora. Colleziona citazioni, penne bic usate a metà e fogli di carta scritti su una facciata sola. Legge autori russi, tiene i libri in ordine alfabetico. Fa ridere su Facebook ma di nascosto scrive racconti drammatici. Lavora sempre ma nessuno ha ancora capito bene quante e quali cose faccia. Si capisce solo che “scrive cose e vede gente”, come direbbe quello.
(Foto di Francesca Mura)