Sestu era brutta anche prima di diventare brutta.
Certo, c’è stato un tempo in cui non me ne rendevo conto, tempo che forse era già finito quando sulla mia bici con le rotelle convinsi mio cugino – che inforcava il suo prode triciclo – ad andare da soli a trovare mia nonna che viveva non lontano, ma dall’altra parte de su stradoni. Avevo più o meno 3 anni.
Sono nata e cresciuta a Sestu. Beh, nata non proprio, visto che faccio parte di quell’età di mezzo in cui si partoriva ancora in casa ma le donne più moderne sceglievano l’ospedale. E quel B354 nel codice fiscale segna anche più di quelle due prime cifre che segnano l’inizio di tutto.
I luoghi dell’anima, dice. Facile a dirsi, più difficile a scriversi per chi non sa cosa sia l’anima né tanto meno saprebbe trovarle una location. Quindi, come un Cosimo Piovasco di Rondò in gonnella – o meglio, in calzoncini, visto che le gonnelle non si addicono allo scopo – mi rifugio sugli alberi.
Se l’anima ha un suo luogo e se si fa accompagnare dalla memoria, il mio luogo sono stati i pini di San Gemiliano. Numerose foto provano che l’odore di polvere misto a resina che probabilmente mi contraddistingueva a un chilometro di distanza non era da attribuirsi al caso: a cavalcioni di un ramo o appesa come una scimmia, stavo sempre lì. A differenza del barone calviniano, però, non da sola e non per protesta. E quelle foto, alberi genealogici orizzontali di cugini veri, semi-veri e finti, rendono l’immagine dei miei ricordi più cari.
Quindi alzo la sede della mia presunta anima poco più di un metro da terra. Gli alberi della mia infanzia, anche quando sembravano enormi e imponenti, non erano mai altissimi. Ma la altezza non conta, conta la distanza. E staccarsi da terra, sentire il ruvido della corteccia appiccicosa e profumata sulla pelle, guardare in su per raggiungere il prossimo ramo, quello contava davvero.
Credo di poter segnare con precisione il momento in cui la mia infanzia è finita: quando ho cominciato ad aver paura non tanto di salire, quanto di scendere dagli alberi. D’improvviso una cautela mia creduta possibile mi rendeva difficile non pensare che, poi, bisognava anche scenderne.
Ma adesso riprovo a scenderne per tornare per terra.
E dire che Sestu è in un’ottima posizione. Vicino a tutto ma non troppo. Facile da raggiungere ma anche da evitare, volendo. Per queste ragioni Sestu ha quasi raddoppiato la popolazione in pochi decenni.
Il destino comune a tutti i paesi che gravitano intorno alle città è quello di attrarre nuovi cittadini che lavorano in centro ma vogliono – o si possono permettere solo di – vivere in periferia. Così si formano due nuclei urbani, demograficamente divisi fra vecchi(o) e nuovo/i. I “fill’e chini sesi” dimezzati nella loro portata si intersecano con i “cussa no est gent’e bidda” rivolti a persone il cui tempo sestese è di gran lunga superiore a quello passato nel borgo natio. Ma tanto non conta. I due nuclei fanno fatica a integrarsi, ci vuole tempo, un tempo in cui il paese, però, non è più di nessuno e continua a perdere la sua identità, posto che ne abbia mai avuta una.
Una cosa è certa: proprio per l’ipertrofia edilizia recente, viviamo tutti in uno spazio molto meno verde di un tempo. Le case con i giardini sono state sostituite da anonime palazzine con i cortili piastrellati; i vuoti fra le case, dove un tempo la natura si prendeva il suo spazio, sono stati riempiti; nell’espansione non si è tenuto conto del bisogno di aria, luce e vegetazione.
E sempre meno alberi su cui arrampicarsi.
Mi piacerebbe poter tornare sugli alberi con la spensieratezza e l’ingenuità di un tempo. Ma gli alberi, pochi, che restano sono costretti, in marciapiedi troppo stretti, a subire potature troppo drastiche. E non paghi del fatto che li si lascia vivere male, li si abbatte perché sporcano o tolgono spazio alle auto, o ancora perché danno asilo agli uccelli che, si sa, a loro volta sporcano. Che quelle fronde offrano ombra a chi ancora cammina a piedi, che siano una risorsa contro l’inesorabile riscaldamento del clima, che rendano tutto più bello con le loro forme e le loro foglie e il loro colore non conta. Serve il decoro: così se va bene lecci e pini sono sostituiti da esili alberelli quasi impercettibili per il passante poco attento; se va male restano le buche nel marciapiede che si riempiono presto di cartacce e altri rifiuti.
Una corsa ad abbattere esseri viventi che talvolta erano lì prima della gran parte degli umani che hanno intorno. Sembra una rimembranza celentaniana, lo so, ma cemento e asfalto dominano incontrastati togliendo ogni possibilità si elevarsi a un metro da terra e cambiare prospettiva sul mondo.
Ma si fa per il decoro, dicono. E quando Sestu sarà diventata un quadro di De Chirico, tutto sarà meravigliosamente pulito e in ordine. Certo virgola certo.
Stefania Manunza insegna inglese agli italiani e italiano agli stranieri. Cultrice di lingua e lingue, di libri e librerie, di storia e di storie, la sua vita è fatta di molti lavori e altrettante passioni, persino la politica. Invecchiando, è diventata piuttosto incline a nostalgici sguardi verso il passato. Come tutti. Suo malgrado.
Cara Stefania,
mi permetto di chiamarti così perche le tue parole dimostrano una sensibilità non comune per le persone e le cose che ti stanno intorno.
Sono Giorgio, appartengo alla seconda categoria da te elencata. Quelli di “cussa no est gent’e bidda”.
Risiedo a Sestu da quasi trent’anni e, ormai, ho trascorso qui quasi metà della mia vita, pur non avendo mai interrotto del tutto i legami con il mio paese natio.
Come molti, io e mia moglie ci siamo inizialmente spostati a Cagliari per motivi di studio e poi, per lavoro ci siamo definitivamente stabiliti qui.
Quando si è posto il problema di trovare casa abbiamo fatto una serie di ricerche in tutto l’hinterland. Non saprei dire esattamente perché abbiamo scelto Sestu. Qualcuno ci disse: non andate Sestu, potete trovare di meglio. Allora nessuno dei nostri amici e conoscenti abitava qui. Molti avevano scelto altri comuni ritenuti più serviti dai pubblici servizi, trasporti, scuole superiori, teatri, parchi giochi per bambini. Ma tantè, ci siamo ritrovati qui.
Nel giugno 1993 abbiamo ufficialmente preso possesso della nostra nuova casa. La prima notte abbiamo cenato a lume di candela, non per un vezzo di giovanile romanticismo, semplicemente perché l’Enel non aveva ancora effettuato l’allaccio dell’energia elettrica.
Il tuo racconto mi porta a ritroso a ripercorrere i miei anni sestesi. Forse perché, come tu dici, invecchiando si diventa piuttosto inclini a nostalgici sguardi verso il passato.
In tutta franchezza devo dire, e spero che tu come sestese doc non te ne abbia a male, che le carenze di servizi del 1993 sono rimaste ad oggi pressoché immutate. Attualmente non esiste un servizio di trasporti efficienti da e per Cagliari, non ci sono scuole superiori, teatri, parchi giochi attrezzati. E soprattutto, come tu dici, i due nuclei di residenti, I “fill’e chini sesi” e i “cussa no est gent’e bidda”, continuano ad essere due mon(a)di non comunicanti.
Dico subito che non voglio con questo intendere che Sestu sia una comunità poco accogliente. Al contrario, durante questi anni abbiamo avuto modo di conoscere tanti sestesi che ci hanno accolto come persone di famiglia. Qualcuno è diventato per noi più che un parente. I nostri figli sono nati e cresciuti qui e considerano Sestu il loro paese. Anche se noi genitori gli ricordiamo le origini barbaricine.
Credo che quello che è mancato in questi anni sia stata una vera politica culturale. Si è scelto di seguire, come tu stessa hai rilevato, una politica di espansione urbanistica a senso unico, e ci si è dimenticati delle politiche sociali e per il tempo libero.
Tra gli uomini è i luoghi si crea sempre un rapporto unico. I luoghi arricchiscono gli uomini e viceversa. Quando una persona si stabilisce in un luogo, da quello prende qualcosa e riceve qualcos’altro in cambio. Si acquisiscono nuove conoscenze, si sperimentano nuovi rapporti interpersonali, ci si rapporta con usi e costumi diversi dai propri. Allo stesso tempo chi arriva porta in quei luoghi il suo patrimonio di conoscenze, di tradizioni, modi di fare e di dire. E queste contaminazioni non possono che essere positive in quanto arricchiscono entrambe le parti.
Questo mutuo scambio, però, per potersi realizzare ha necessità di canali di comunicazione intensi e multidirezionali. Se tra i diversi soggetti non si instaurano questi rapporti di scambio, a perdere sono tutti. I locali che, talvolta vedono i nuovi arrivati come una presenza “invadente” in casa propria, e gli “immigrati” che, non sentendosi integrati nel nuovo mondo tendono a vivere in una micro bolla sociale appositamente autocostruita a cui possono accedere solo i membri della famiglia ristretta ed, eventualmente, pochi altri facenti parte anch’essi del gruppo degli “immigrati”.
Uno degli strumenti più potenti per realizzare ponti comunicativi tra soggetti è proprio la cultura, in tutte le sue manifestazioni. Per questo credo sia fondamentale incentivare e sostenere tutte le iniziative culturali. A cominciare dalle strutture: scuole, parchi, teatri, palestre, strutture per il tempo libero in generale; per proseguire con il sostegno ai soggetti che quelle strutture devono gestire e animare. Parlo delle associazioni di volontariato, culturali, sportive, folcloristiche.
Non sono un sociologo ma ho sempre pensato che anche le maschere tradizionali di Sestu siano emblematiche di questa dicotomia sociale. Da una parte i “Mustayonis” espressione della cultura contadina locale e dall’altra “S’Orku Foresu” l’orco forestiero, quello che viene da fuori, probabile rappresentazione dei pastori che, in passato, scendevano con i loro greggi dalle Barbagie a svernare nel Campidano. Due figure che vengono rappresentate in perenne lotta tra di loro.
Credo che quella culturale sia la sfida più importante che le amministrazioni che si sono succedute a Sestu avrebbero dovuto affrontare con maggiore impegno. Certo, so che non è facile. I comuni, ormai, hanno limitate risorse finanziarie e, spesso, sono costretti ad impegnarle per interventi urgenti e immediati, ma una maggiore lungimiranza in questo senso non potrebbe che migliorare l’attratività e la socialità del luogo.
So bene che parlare di cultura con te equivale a sfondare una porta aperta, ma spero che anche tra chi deve prendere decisioni per il futuro di Sestu si diffonda la consapevolezza dell’importanza della cultura come volano di integrazione e sviluppo per la “nostra” comunità.
Saluti
Giorgio
Giorgio,
Grazie per le tue riflessioni. Difficile non essere d’accordo con le considerazioni rispetto alle politiche culturali che l’amministrazione comunale può e deve (o almeno dovrebbe) mettere in campo. Sono però meno ottimista di te sulla reale portata della “spinta” che queste politiche possono dare in termini pratici. I momenti di aggregazione non sono molti, è vero, ma anche quei pochi sono poco partecipati o, capita spesso, si tratta di eventi che attraggono solo i già coinvolti e non gli altri.
Lo scrivo pensando prima di tutto a me stessa, alla me ragazzina che non vedeva l’ora che arrivassero le feste (santi o Feste dell’Unità, a quel tempo facevo poche distinzioni) per uscire e incontrare sì gli amici, ma anche gli altri. Oggi sono la prima che per mancanza di tempo, per indifferenza o disinteresse, ma forse solo per pigrizia, partecipa alla vita pubblica meno di quanto dovrebbe: lungi da me dunque puntare il dito su chi dovrebbe fare e non fa.
Immagino che il nostro discorso “fill’e chini sesi” vs “cussa no est gent’e bidda” avrà sempre meno senso col passare del tempo, e quello che racconti dei tuoi figli lo dimostra. Anzi, più che immaginarlo, lo spero: mi sono sempre sentita molto stretta nel “fill’e chini sesi” e ho vissuto le identità e le appartenenze come recinti da superare più che come protezioni rassicuranti.
Sono nata qui e ho scelto di continuare a viverci anche nella mia vita adulta. Perché con tutto quello che è rimasto uguale da 30 o 40 anni, con tutti i passi avanti che non si sono fatti, con il suo essere non più “bidda” ma non ancora città, Sestu resta un posto in potenza.
Comments are closed.