Una speranza: che la caserma degli orrori non risvegli i pregiudizi antimilitaristi

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L'immagine simbolo dell'inchiesta sui carabinieri di Piacenza

Si chiamava “Marilyn Monroe” la scuola del film Bianca, diretto da Nanni Moretti nel 1984. Nome di fantasia, ma quell’edificio – giuro – era davvero una scuola. Ci avevo fatto la guardia ai seggi, due anni prima, distaccato da Palazzo Marina, in Via Flaminia. Un notevole impegno, insieme ad un altro ufficiale, agli ordini di due sottufficiali dei carabinieri. Sembra un controsenso, ma l’Arma prima di tutto, sempre più alta in grado. E, con l’Arma, in quell’occasione siamo andati davvero d’accordo. Gran lavoro e organizzazione. Efficienza e trasparenza.

Devo dire che, prima di frequentare gli ambienti militari, ho sempre guardato con una certa diffidenza gli uomini con le stellette (allora le donne non indossavano la divisa). Ho cambiato completamente idea quando, all’Accademia di Livorno, io allievo di complemento chiesi ad un allievo dei corsi normali:”Perché vuoi fare l’ufficiale di Marina?” Risposta immediata, semplice, disarmante:”Perché mi piace il mare.” Davanti a tanta spontanea onestà, è crollato il mio castello di pregiudizi, di giovane di sinistra che percepiva i militari come corpi separati dalla società. Pregiudizi che evidentemente venivano dal ‘68 e dintorni, dall’epoca delle tensioni e degli scontri.

Ma oggi, di fronte ai fatti di Piacenza, il rischio è che torni l’antica diffidenza. Carabinieri accusati di spaccio di droga, pestaggi, anche torture. Fa pensare a Stefano Cucchi, alla sua morte orribile. Vengono alla mente trame, depistaggi, poteri occulti che hanno percorso la storia della Repubblica. Ma forse è meglio circoscrivere il caso. Niente dietrologie. È stato un maggiore dei carabinieri a denunciare i suoi colleghi. Dunque gli anticorpi ci sono. Militari onesti che chiedono di cambiare metodi, selezione, catena di comando, nelle situazioni poco chiare, in cui sia necessario prevenire, evitare fatti simili a quelli di Piacenza.

L’immagine di quella caserma è davvero devastante, un pugno allo stomaco per la sicurezza pubblica, per i cittadini, per le istituzioni, per lo Stato. Già si sentono le voci stonate:”Buttare la chiave”. Come se la galera a vita fosse la soluzione. E non piuttosto un facile e falso rimedio per aggirare l’ostacolo. Se manca la cultura della democrazia e della legalità, se c’è corruzione nelle forze dell’ordine, allora bisogna fare un gran lavoro, magari cominciando con la promozione di militari di provata onestà e capacità.

Tornando ai mesi trascorsi a Livorno, mi piacerebbe che si diffondesse nel Paese l’entusiasmo di quell’allievo che amava il mare. E dunque se io chiedo a un giovane:”Perché vuoi fare il carabiniere?”, sarebbe bello che rispondesse:”Perché amo gli italiani e voglio che vivano sicuri, voglio confrontarmi con loro, dialogare, sentire quali sono le loro esigenze, garantire le loro libertà.” E poi mi piacerebbe che quel ragazzo facesse la guardia ai
seggi in quella bella scuola di Roma tanto cara a Nanni Moretti, la “Marilyn Monroe”. Perché un po’ di fantasia, un sogno cinematografico, ci sta bene anche tra le forze dell’ordine.

Ho un altro ricordo di Livorno. Dopo una giornata segnata da disciplina, regole, studio, al passo ci recammo a vedere un film. Era Niente di nuovo sul fronte occidentale, dal romanzo di Erich Maria Remarque. Quanto di più antimilitarista ci possa essere. Con il permesso di un’accademia militare aperta al confronto delle idee.

Attilio Gatto