Oggi, 15 novembre 2020, Vittore Bocchetta compie 102 anni. L’abbiamo sentito nella sua casa di Verona e abbiamo pensato di festeggiare con un doppio regalo ai lettori: un disegno e il testo che lo spiega. E’ la storia di come l’istinto di sopravvivenza e un termometro gli salvarono la vita. Il termometro gli era stato regalato da un medico ucraino che lavorava nel lager. Vittore gli era riuscito simpatico perché era stato in grado di sostenere con lui una conversazione su Voltaire. L’istinto di sopravvivenza era quello di un uomo che era stato capace di acquisire le regole feroci del campo di sterminio senza perdere sé stesso.
Una storia che ritrova attualità oggi. Possiamo infatti leggerla come una metafora del potere della scienza in un’epoca in cui c’è chi insiste nel negarla. Anche quando si trova, come Bolsonaro in Brasile, o si è trovato, come Trump negli Stati Uniti, a guidare paesi popolati da centinaia di milioni di persone. Vittore volse a sua favore un fenomeno della fisica, la produzione del calore attraverso l’attrito, e una nozione medica oggi ben nota: che la temperatura corporea rivela una malattia. Il termometro, così, si trasformò in una delle chiavi che gli consentirono di resistere fino al giorno della liberazione.
Il brano e il disegno sono tratti dal libro Prima e dopo (Tamellini editore), uscito nel 2012 e in via di ristampa.
Olivelli è riuscito a convincere uno dei medici del Revier, l’infermeria, a visitare la baracca. Questi, che si è fatto amico di Olivelli, acconsente pur sapendo che non può cambiare nulla. È un gobbetto ucraino con triangolo rosso: forse è stato davvero medico, o magari neanche infermiere, ma qui è un Doktor e appartiene ovviamente alla intellighenzia aristocratica del Lager. Ci passa in rivista insieme a Olivelli, ogni tanto fa tirar fuori una lingua o solleva una palpebra. Quando si ferma davanti a me, Olivelli gli dice, in tedesco, che sono un professore di filosofia. Il gobbetto guarda in su: – Tu parles français, naturellement, n’est-ce pas? – E mi chiede dove ho studiato, dove ho insegnato e se ho letto Voltaire.
– Ma certo! – Candide? – Sicuro! – E parliamo di Voltaire, del povero Candide e del migliore dei mondi possibili, poi mi stringe la mano: – Ça a été mon plaisir. – E se ne va.
Siamo arrivati alla fine di novembre e sono secoli che abbiamo lasciato la vita.
Oggi lo Schreiber mi trattiene latrando urla che non capisco e sono l’ultimo a uscire dalla baracca. Non ci sono più i miei zoccoli, sono scalzo e il Kapò mi appioppa una scarica di gommate perché faccio indugiare la squadra che deve partire. Sono costretto a unirmici a piedi nudi. Comincia la marcia e affondo i piedi scalzi nella melma gelata. Nevica e soffia un vento siderale, sferzante e tenace. Prima gli occhiali e ora gli zoccoli! Mi rendo conto che così non potrò mai raggiungere il piazzale e, molto meno, il lavoro. Mi arresto e mi fermo dove mi trovo, curvo la schiena e mi offro rassegnato alle gommate.
– Was ist los? – (Che cosa succede?)
– Krank! Krank! (Malato! Malato!)
L’aguzzino mi guarda con scherno: – Krank? Revier, raus! – (Malato? All’infermeria, via!). E mi appioppa un’innocua pedata. Più sorpreso che grato mi avvio al Revier, che non è molto lontano.
Conosciamo tutti la regola: se non mi riscontrano più di trentotto di febbre mi cureranno con cinquanta esperte gommate sulle natiche. Ma, intanto? Intanto non ho altra scelta. Sono più che mai determinato a farmi uccidere piuttosto che morire lentamente. Dopotutto morire adesso non è altro che anticipare la mia dovuta fine naturale per smettere, una volta per tutte, questo orrore.
All’ingresso del Revier ci sono due file, una che entra e una che esce. La fila uscente continua fino al tavolo della flagellazione: sono i consumabili che hanno tentato di fare gli ammalati. Lo spettacolo è di estremo effetto: molti degli entranti al vedere le gommate rinunciano e tornano da dove sono venuti: riceveranno, sì, una razione esemplare di Gummi, ma sarà preferibile a queste cinquanta che sono somministrate sulle natiche da abili cesellatori. Molti di quelli che subiscono questa tortura dolorosissima muoiono sotto i colpi, altri non vivono per molto. Ma io ho deciso. Entro e mi fermo sorpreso davanti al Doktor, il gobbetto voltairiano. Mi riconosce e mi consegna un termometro.
– Tu es malade… j’espére. Attend ici.
Mentre gli altri proseguono io gli resto accanto, con il termometro sotto l’ascella. Dopo alcuni secondi, me lo leva, lo guarda senza leggerlo e me lo restituisce ammiccando con un sorrisetto d’intesa, poi ad alta voce: – Tu as la fièvre, marche au lit! – E mi consegna a un suo assistente.
Qui arrivo a conoscere un’altra aberrazione, quella degli infermieri. Mi fanno spogliare, mi danno una coperta e mi lasciano entrare. Trovo una cuccetta e finalmente mi butto a dormire.
Nessuno si è accorto della commedia del termometro. Ben presto mi renderò conto della preziosità di quel regalo e di quanto debba al caro gobbetto. Grazie, Voltaire! Grazie, caro Candide!
Non ho più visto il Doktor gobbetto. Dentro il Revier gli infermieri sono occupati ad alleggerirci dai cadaveri e a infilare e levare i termometri dai nostri orifizi. Non esistono medicine e il vitto è sempre la solita ciotola di rape, lo stesso pezzo di pane e la medesima zolletta di margarina. L’avvicendarsi di chi viene e chi va è un formicolio in piena. Alcuni, pochissimi, si ristabiliscono per tornare in schiavitù. Io, frizionandolo con la coperta, cerco di mantenere il termometro sui trentotto, trentotto e mezzo; ogni volta (due alla settimana) lo sostituisco con un altro che mi danno gli infermieri. Riesco a farlo per tre mesi. In questi tre mesi d’inverno siderale, dicembre gennaio febbraio, io, Lazzaro, divento un esperto fra gli esperti.
Vittore Bocchetta