Nel pezzo sul mio 25 aprile ho fatto cenno al gruppo di prigionieri di guerra inglesi dello Stalag 383 di Hohenfels che mi aveva soccorso dopo la mia fuga dalla marcia della morte.
Qui vorrei raccontare un particolare che anche uno sceneggiatore fantasioso stenterebbe a includere in un film per non apparire esagerato.
Appena ripresi i sensi, dopo essere stato immerso in un catino d’acqua tiepida e rifocillato con un paio di gallette inzuppate di latte condensato, sono tempestato da una serie di domande, prima in inglese (non lo capisco perché lo imparerò soltanto quindici anni dopo in America), poi in francese.

Chiedo un paio di occhiali (i miei mi erano stati sottratti e distrutti da un kapò qualche tempo prima). Uno degli inglesi, che parla uno stentato francese, continua a fissarmi:
“Da dove vieni?”
“Da Verona”
“Sei un ribelle?”
“Sì, un ribelle di città”
“Hai avuto contatti con prigionieri inglesi?”
“Sì. Li ho avuti”
“Dove?”
Non finisco di pronunciare il nome di Trevenzuolo che scatta in piedi e si avvicina quasi a toccarmi. Comincio a sentirmi scomodo: vuoi vedere, mi dico, che mi scambia per qualche balordo?
“Come ti chiami?”
“Vittore Bocchetta”
“No. Non il tuo vero nome. Il nome di copertura”
“Tenente”
Mi getta le braccia al collo:
“Mon ami! Mon cher ami!”
Si rivolge agli altri e, in inglese, racconta la coincidenza incredibile: una storia lontana un anno e mezzo e centinaia di chilometri. Un giovane di Verona, il “Tenente”, aveva cercato di sottrarre ai tedeschi un gruppo di prigionieri di guerra inglesi allontanatisi dal campo dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943.
Ricordava benissimo: ero proprio io.
Nei giorni successivi mi riempiono di ogni cura possibile fino a concedermi di stare nella baracca migliore, quella dell’ufficiale delle SS comandante del campo, che nel frattempo si era eclissato per l’arrivo imminente dei liberatori americani.
Si avvicina il giorno del rimpatrio e James Crowe, così si chiama l’amico inglese conosciuto a Trevenzuolo, insiste perché mi unisca al suo gruppo fino a Londra, dove sarei trattato con tutti gli onori.
Io declino l’invito perché preferisco rientrare in Italia.
James è l’ultimo a salire sul camion che li condurrà all’aereo per Londra.

Si avvicina, mi abbraccia e mi consegna un pezzetto di carta strappato a un notes, dove ha tracciato qualche parola a matita.
Per il resto della mia vita ho conservato come una reliquia il foglietto, che ormai è consunto e ingiallito.

Questa la traduzione:
“Dopo l’Armistizio, in Italia, nel Settembre 1943, quest’uomo mi diede da mangiare, mi vestì e si prese cura di me. Lo conobbi dopo che ero stato sbandato per sei settimane. Egli è Monarchico”. (ndr: in realtà Bocchetta non era monarchico, ma gli inglesi individuavano come tali gli ufficiali che, non avendo aderito alla Repubblica di Salò, erano rimasti fedeli al re).
Seguiva la firma: A.J.S. Crowe, Artiglieria Reale
Ho cercato a lungo per decenni di rintracciare in Inghilterra James Crowe. Invano, forse perché i mezzi tecnici tradizionali a mia disposizione non erano adeguati.
Nel 2009, mio nipote ha digitato su Google “A.J.S. Crowe”, cioè l’esatta firma riportata nel biglietto: è comparso – in un sito dedicato alle memorie inglesi della Seconda Guerra Mondiale – il resoconto di un incidente aereo occorso il 9 maggio 1945 al bombardiere Lancaster che avrebbe dovuto rimpatriare l’artigliere Alfred James Spencer Crowe – questo il nome completo – e i suoi compagni di prigionia. Forse, era questa l’ipotesi, causato da uno sbilanciamento del carico: i corpi furono ritrovati tutti in coda alla fusoliera. Sono sepolti tutti e ventiquattro in un cimitero di guerra alle porte di Parigi.
Vittore Bocchetta